Il diritto internazionale e il diritto interno degli Stati sono diritti (ordinamenti) distinti, cioè non esiste un unico ordinamento giuridico mondiale.1 È un fatto che tutti gli Stati (soggetti primari dell’ordinamento internazionale), sia pure secondo modalità diverse, debbano adottare nella propria legislazione norme che provvedono a rendere applicabile le norme internazionali al loro interno.
Rispetto a questo processo si parla di “adattamento’ del diritto interno di ciascuno Stato al diritto internazionale, o anche di ‘recepimento’ del diritto internazionale nel diritto interno. Gli Stati di regola predispongono meccanismi di adattamento diversi a seconda se vengano in rilievo norme internazionali generali (dette anche norme consuetudinarie, o consuetudini), o pattizie, o norme contenute in atti vincolanti di organizzazioni internazionali. Inoltre, poiché il diritto internazionale non prescrive agli Stati il modo in cui l’adattamento deve avvenire, i singoli Stati sono liberi in principio di provvedervi come meglio credono. Dunque, esiste una varietà di soluzioni adottate dai diversi Stati per conformare il proprio ordinamento interno al diritto internazionale.
Ciò non vuole dire che gli Stati siano “liberi” di attuare o meno il diritto internazionale, ma soltanto che proprio il diritto internazionale, così come creato e sorretto dalla generalità degli Stati, lascia ai singoli Stati un margine di discrezionalità nel modificare il proprio diritto interno affinché il diritto internazionale possa essere in concreto applicato.
Infatti, la funzione sistemica del diritto internazionale è sempre universalistica ma l’autorità che in ultima istanza deve esercitarla è sempre statuale (v. C. Focarelli, Diritto internazionale, 2012, p. 281). L’adattamento ha quindi una importanza decisiva dal momento che è il meccanismo con cui i singoli Stati pongono la loro autorità di governo al servizio della realizzazione dei valori comuni e rilevanti per l’umanità, nei limiti in cui quei valori sono protetti dal diritto internazionale.
Le norme di adattamento al diritto internazionale possono distinguersi in due categorie a seconda se gli Stati lo riformulino oppure vi operino un rinvio.
Nel primo caso si parla di adattamento ordinario dal momento che l’autorità interna (Costituente, legislatore, organo amministrativo) deve redigere una norma nazionale con il contenuto corrispondente alla norma internazionale.
Nel secondo caso si parla di adattamento speciale perché l’autorità interna (che di nuovo può essere il Costituente, il legislatore ordinario o un organo amministrativo) si limita a rinviare alla norma internazionale senza riformularla.
In entrambi i casi si raggiunge il risultato dell’adattamento, cioè la modifica del diritto interno necessaria affinché il diritto internazionale possa essere applicato, anche al posto del diritto interno altrimenti vigente. In entrambi i casi esiste infatti una norma nazionale che autorizza o impone agli organi statali di applicare la norma internazionale che è stata oggetto dell’adattamento.
Il processo di adattamento solleva, almeno, due questioni: a) la prima concerne i diversi livelli di “applicabilità” interna della norma internazionale, a partire dalla ipotesi in cui l’adattamento non è stato effettuato affatto; b) la seconda questione concerne il rango che le norme internazionali immesse in un ordinamento interno hanno in quell’ordinamento in rapporto alle altre norme nazionali.
a) Rispetto alla prima questione, possiamo distinguere quattro livelli di (in)operatività – meglio efficacia? – interna di una norma internazionale:
- Inoperatività: nel caso in cui l’adattamento non sia avvenuto. In questo caso la norma internazionale, pur vincolante all’esterno, non opera all’interno, però lo Stato è tenuto ad osservarla nei confronti degli altri Stati per cui la norma è in vigore.
- Applicabilità diretta: nel caso in cui la norma internazionale sia stata regolarmente immessa nell’ordinamento interno, per cui dall’adattamento sorgono gli obblighi per le autorità/organi statali di applicare la norma internazionale senza ulteriore specifica attività normativa che glielo imponga.
- Azionabilità individuale: nel caso in cui la norma internazionale, alla quale l’ordinamento interno si sia adattato, crei diritti ed obblighi anche per i singoli individui, e quindi sia da essi azionabile, o ad essi opponibile, dinnanzi ai giudici interni. In questo caso non solo esiste l’obbligo per le autorità dello Stato di applicare la norma internazionale, ma è altresì consentito agli individui di poterne invocare l’applicazione in giudizio allorché sia in gioco un loro diritto. Si noti che per stabilire se un obbligo internazionale si rivolge alle sole autorità nazionali o crei altresì pretese giudizialmente azionabili dagli individui, occorre interpretare la norma internazionale. Per esempio, la Corte di Cassazione italiana nel caso Markovic del 2002, avallata dalla Corte europea dei diritti umani, ha ritenuto che l’art. 3 della Convenzione di Ginevra del 1907 sulle leggi e usi della guerra terrestre e l’art. 91 del I Protocollo di Ginevra del 1977 sulla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali, non prevedessero un diritto azionabile dall’individuo al risarcimento dei danni per violazione del diritto umanitario pur obbligando le autorità italiane al loro rispetto.
- Completezza: nel caso in cui una norma internazionale è all’interno operativa ed eventualmente anche azionabile da privati, ma risulta incompleta nel contenuto per essere applicata in concreto e richieda dunque un provvedimento nazionale ulteriore integrativo o specificativo che la renda applicabile. In Italia è soprattutto in questo senso che si parla di “diretta applicabilità” e di norme self-executing o meno, spesso confondendo questo livello con i precedenti.
b) Rispetto alla seconda questione, il problema sorge in caso di conflitto tra una norma internazionale immessa e un’altra norma nazionale, norma internazionale immessa che può avere in se stessa un rango costituzionale, o legislativo ordinario, o sub-legislativo. Il principio di massima, seguito dall’ordinamento italiano, è che la norma internazionale ha nell’ordinamento interno il rango della norma nazionale che provvede al suo adattamento. Ad esempio, se una norma internazionale consuetudinaria viene recepita con una norma costituzionale, in principio avrà nell’ordinamento interno il rango di norma costituzionale, con la conseguenza che prevarrà sulle altre norme statali di rango legislativo o sub-legislativo. Ciò non impedisce però che talvolta la norma internazionale immessa abbia, per vari motivi, un rango interno formalmente superiore a quello dell’atto con il quale si è provveduto all’adattamento.
Interessa ora brevemente descrivere come nell’ordinamento italiano si provvede all’adattamento del diritto interno al diritto internazionale.
Una norma costituzionale, l’art. 10(1) si occupa dell’adattamento alle norme internazionali consuetudinarie e ai principi generali di diritto.2 Secondo la communis opinio, l’art. 10(1) obbliga gli operatori giuridici interni, in particolare i giudici, ad applicare le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute attraverso un rinvio automatico e costante effettuato una tantum e in blocco. Trattandosi di un procedimento speciale di adattamento, attraverso il quale le norme internazionali vengono richiamate nel loro insieme così come vivono nell’ordinamento internazionale, spetta all’interprete non solo individuare le categorie di norme internazionali “generalmente riconosciute” ma anche stabilire di volta in volta la loro esistenza, il loro contenuto, la loro efficacia/validità e così via. Pare chiare quanto delicato sia il ruolo dei giudici interni e quanto importanti il fatto che la consuetudine internazionale venga accolta in termini più oggettivi e rigorosi possibile.
Inoltre, solo la normativa UE dotata di effetti diretti (i Regolamenti, gran parte delle decisioni, anche determinate direttive) pone in capo ai singoli diritti e obblighi rilevabili dal giudice di merito in un processo. Il giudice ha anzi l’obbligo di disapplicare direttamente le norme interne in contraddizione con la norma UE e di applicare senz’altro quest’ultima senza passare tramite nessuna istanza.
Per quanto riguarda invece l’applicazione dei trattati (nonché le norme UE non dotate di effetto diretto/applicabilità diretta, ma non ne parliamo per non fare confusione), manca nell’ordinamento italiano una norma costituzionale che si occupi dell’adattamento rispetto agli accordi internazionali, appunto.
In mancanza di norme esplicite, il procedimento di adattamento ai trattati di regola più seguito nella prassi italiana è quello di carattere speciale, cioè tramite il c.d. ordine di esecuzione. Ovvero, una legge ordina l’esecuzione del trattato all’interno dello Stato -si tratta di solito di una unica legge con cui il Parlamento contemporaneamente autorizza il Presidente alla ratifica e ordina l’esecuzione all’interno dello Stato; è questo anche il caso della Convenzione di Faro.
In questi casi il controllo di costituzionalità spetta, per il nostro Paese, alla Corte Costituzionale (CC), non ai giudici di merito. Distinguiamo due ipotesi.
In un primo caso il Trattato potrebbe essere in contrasto con la Costituzione. Con la sentenza n. 223 del giugno 1996 la CC dichiarava l’incostituzionalità della legge n. 225 del 1984 che dava esecuzione al trattato di estradizione tra Italia e Stati Uniti (SU) nella parte in cui prevedeva la possibilità di estradare un individuo verso quel paese anche per reati per i quali è prevista la pena di morte, qualora il Paese richiedente (SU) fornisse assicurazioni circa la non esecuzione della pena stessa. La CC si fondava sull’art. 2 Cost. che stabilisce il diritto alla vita come “primo dei diritti inviolabili dell’uomo”.
Ovviamente questi sono casi alquanto rari, per niente rara è invece l’ipotesi contraria. Una volta che il Trattato abbia applicazione in Italia, il giudice di merito che si accorga della vigenza nell’ordinamento di una legge contenente norme in contrasto con gli obblighi nascenti dal Trattato (sia questa legge preesistente, oppure sia stata emanata successivamente), deve sospendere il processo e porre la questione di costituzionalità alla CC. Le sentenze nn. 348 e 349 del 2007 della CC hanno chiarito come, alla luce della modifica costituzionale del 2003, la legge che dà applicazione al Trattato rappresenta una norma interposta (cioè sottoposta alla Costituzione, ma con valore maggiore della legge ordinaria), che costituisce “parametro di valutazione” della legittimità costituzionale della legge ordinaria italiana.
Ma è sufficiente la formula contenuta nell’ordine di esecuzione? Lo sarà nei casi in cui il Trattato ponga obblighi chiari, univoci, non condizionati, ovvero obblighi discendenti da norme self-executing. Ciò può accadere nel caso di obblighi esclusivamente negativi, la cui esecuzione non richiede alcuna collaborazione attiva da parte dello Stato. L’Italia ha ratificato ancora nel 1987 la Convenzione contro la tortura, limitandosi a dare l’ordine di esecuzione, ma senza prendere le misure relative alla definizione del reato e ai massimali della pena, insomma senza introdurre le necessarie modifiche ai codici penale e di procedura penale. Questi sono obblighi positivi che nella Convenzione accompagnano l’obbligo negativo di non torturare, e vanno attuati dai singoli Stati. L’Italia continuò per anni a commettere un (grave) illecito internazionale, sostenendo (falsamente) che il nostro ordinamento già prevedeva pene adeguate per reati “simili”. Solo dopo una crescente mobilitazione dell’opinione pubblica e della magistratura (soprattutto le magistrature superiori) l’Italia ha provveduto a prendere misure di applicazione (discutibili, ma questa è un’altra storia) di quella Convenzione.
All’atto pratico insomma l’accordo internazionale che preveda obblighi postivi, anche di condotta (di solito quelli introdotti dal futuro semplice: “Parties shall” ..) richiede misure di applicazione (legislative o amministrative). A maggior motivo ciò avverrà quando il Trattato preveda, esclusivamente o prevalentemente, obblighi di risultato: in questo caso la versione inglese utilizzerà, quando non la formula più leggera (“States should”, in cui l’obbligo è tracciato solo a grandi linee), la formula caratteristica (“Parties undertake to”… oppure “Parties endeavour to”). Nella Convenzione UNESCO del 2005 sulla protezione della diversità culturale (art. 11 c) – una tra le più deboli – abbiamo un esempio di obbligo particolarmente soft, dal momento che la Convenzione prevede in generale la formula “endeavor to”, ma in alcune disposizioni utilizza in aggiunta l’espressione “should”.
Es. Parties “endeavour to encourage creativity and strengthen production capacities by setting up educational, training and exchange programmes in the field of cultural industries. These measures should be implemented in a manner which does not have a negative impact on traditional forms of production”. L’obbligo in capo allo Stato è quanto di più lasco si possa dare.
Solo la normativa UE dotata di effetti diretti (i Regolamenti, gran parte delle decisioni, anche determinate direttive) pone in capo ai singoli diritti e obblighi rilevabili dal giudice di merito in un processo. Il giudice ha anzi l’obbligo di disapplicare direttamente le norme interne in contraddizione con la norma UE e di applicare senz’altro quest’ultima senza passare tramite nessuna istanza.
Per quanto riguarda invece l’applicazione dei Trattati (nonché le norme UE non dotate di effetto diretto, ma non ne parliamo per non fare confusione), manca nell’ordinamento italiano una norma costituzionale che si occupi dell’adattamento rispetto agli accordi internazionali, appunto.
In mancanza di norme esplicite, il procedimento di adattamento ai trattati di regola più seguito nella prassi italiana è quello di carattere speciale, cioè tramite il c.d. ordine di esecuzione. Ovvero, una legge ordina l’esecuzione del trattato all’interno dello Stato: si tratta di solito di una unica legge con cui il Parlamento contemporaneamente autorizza il Presidente alla ratifica e ordina l’esecuzione all’interno dello Stato; è questo anche il caso della CF. In questi casi il controllo di costituzionalità spetta, per il nostro Paese, alla Corte Costituzionale (CC), non ai giudici di merito. Distinguiamo due ipotesi.
In questi casi il controllo di costituzionalità spetta, per il nostro Paese, alla Corte costituzionale, non ai giudici di merito. Distinguiamo due ipotesi.
In un primo caso, il Trattato potrebbe essere in contrasto con la Costituzione. Con la sentenza 223 del giugno 1996 la CC dichiarava l’incostituzionalità della legge 225 del 1984 che dava esecuzione al Trattato di estradizione tra Italia e Stati Uniti (SU) nella parte in cui prevedeva la possibilità di estradare una persona verso quel Paese anche per reati per i quali è prevista la pena di morte, qualora il Paese richiedente (SU) fornisse assicurazioni circa la non esecuzione della pena stessa. La Sprema Corte si fondava sull’art. 2 Cost. che stabilisce il diritto alla vita come “primo dei diritti inviolabili dell’uomo”..
Ovviamente questi sono casi alquanto rari, per niente rara è invece l’ipotesi contraria. Una volta che il Trattato abbia applicazione in Italia, il giudice di merito che si accorga della vigenza nell’ordinamento di una legge contenente norme in contrasto con gli obblighi nascenti dal Trattato (sia questa legge preesistente, oppure sia stata emanata successivamente), deve sospendere il processo e porre la questione di costituzionalità alla CC. Le sentenze 348 e 349 del 2007 della CC hanno chiarito come, alla luce della modifica costituzionale del 2003, la legge che dà applicazione al Trattato rappresenta una norma interposta (cioè sottoposta alla Costituzione, ma con valore maggiore della legge ordinaria) , che costituisce “parametro di valutazione” della legittimità costituzionale della legge ordinaria italiana.
Ma è sufficiente la formula contenuta nell’ordine di esecuzione? Lo sarà nei casi in cui il Trattato ponga obblighi chiari, univoci, non condizionati : si parla in tal caso di norme self-executing. . Ciò può accadere nel caso di obblighi esclusivamente negativi, la cui esecuzione non richiede alcuna collaborazione attiva da parte dello Stato. L’Italia ha ratificato ancora nel 1987 la Convenzione contro la tortura, limitandosi a dare l’ordine di esecuzione, ma senza prendere le misure relative alla definizione del reato e ai massimali della pena, insomma senza introdurre le necessarie modifiche ai codici penale e di procedura penale. Questi sono obblighi positivi che nella Convenzione accompagnano l’obbligo negativo di non torturare, e vanno attuati dai singoli Stati. L’Italia continuò per anni a commettere un (grave) illecito internazionale, sostenendo (falsamente) che il nostro ordinamento già prevedeva pene adeguate per reati “simili”. Solo dopo una crescente mobilitazione dell’opinione pubblica e della magistratura (soprattutto le magistrature superiori) l’Italia ha provveduto a prendere misure di applicazione (discutibili, ma questa è un’altra storia) di quella Convenzione.
All’atto pratico insomma l’accordo internazionale che preveda obblighi postivi, anche di condotta (di solito quelli introdotti dal futuro semplice: “Parties shall” ..) richiede misure di applicazione (legislative o amministrative). A maggior motivo ciò avverrà quando il Trattato preveda, esclusivamente o prevalentemente, obblighi di risultato: in questo caso la versione inglese utilizzerà, quando non la formula più leggera (States should”, in cui l’obbligo è tracciato solo a grandi linee), la formula caratteristica ( Parties undertake to .. oppure Parties endeavour to). Nella Convenzione UNESCO del 2005 sulla protezione della diversità culturale (art. 11 c) – una tra le più deboli- abbiamo un esempio di obbligo particolarmente soft, dal momento che la Convenzione prevede in generale la formula “endeavor to”, ma in alcune disposizioni utilizza in aggiunta l’espressione should.
Es. Parties “endeavour to encourage creativity and strengthen production capacities by setting up educational, training and exchange programmes in the field of cultural industries. These measures should be implemented in a manner which does not have a negative impact on traditional forms of production”. L’obbligo in capo allo Stato è quanto di più lasco si possa dare.
Recita l’art. 10(1) Cost.: “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.
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Testo da citare:
Testo redatto a cura dell’ Associazione Faro Venezia
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