La guerra delle statue

Negli ultimi tempi si è aperta nel mondo occidentale un vera e propria battaglia delle statue. In realtà è un battaglia sui significati che le storie e i monumenti veicolano. Le statue sono state pensate, finanziate, costruite e posizionate allo scopo preciso di “dare stabilità” ad una particolare visione del mondo e della storia di un popolo. Ma queste visioni cambiano nel tempo; la storia si rivela come un insieme si storie in competizione tra loro e la pietra o il bronzo non sono poi così eterni come ingenuamente si pensava.

Nessuno ancora,in Italia, ha osato mettere in discussione le statue di Giuseppe Garibaldi, ma non è più impensabile che questo possa succedere (e succederà).

Ecco allora per voi una breve rassegna di libri apparsi in un breve arco di tempo che raccontano questa battaglia semiotica e sociale sul patrimonio controverso (i testi sono le presentazioni delle rispettive case editrici).

LENIN stata abbattuta

Antonella Salomoni
Lenin a pezzi. Distruggere e trasformare il passato.

Ed Il Mulino (2024)
https://www.mulino.it/isbn/9788815388094

Vladimir Lenin, fondatore dell’Urss, per volontà di Stalin è stato esposto alla venerazione dei cittadini nel mausoleo della Piazza Rossa, e ha vegliato sui popoli del blocco sovietico attraverso migliaia di occhi di pietra o bronzo di altrettanti monumenti. Ma cosa è accaduto dopo il 1989? Il corpo, perduta l’aura della reliquia, è rimasto in mostra a Mosca, davanti al Cremlino, e le statue sono state in gran parte cancellate. Una vicenda esemplare per comprendere la complessità dei fenomeni iconoclastici. La pratica di tirare giù Lenin dal suo piedistallo ha riguardato tutto lo spazio post sovietico e, in Ucraina, ha assunto contorni talmente importanti da essere indicata con il termine Leninopad: il più grande movimento d’iconoclastia del Novecento, esploso prima ancora delle proteste che, più di recente, abbiamo visto in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. A un secolo dalla morte di Lenin, Antonella Salomoni ne racconta ascesa e declino attraverso la storia del suo corpo e delle sue immagini: innalzate, rispettate e poi rimosse, distrutte, vandalizzate, reinterpretate come simbolo di sottrazione al colonialismo russo, e persino ricollocate sui piedistalli dagli occupanti durante la guerra in Ucraina. Un libro sulla memoria imposta e poi sovvertita, che va al cuore delle inquietudini del mondo contemporaneo.

STATUE DONNE NUDE

Ester Lunardon e Ludovica Piazzi (a cura di)
Comunque Nude. La rappresentazione femminile nei monumenti pubblici italiani

Ed. Mimesis (2023)
https://www.miriconosci.it/libro-comunque-nude/

Questo libro scaturisce dall’indagine svolta dall’associazione Mi Riconosci tra il 2021 e il 2022, che ha censito le statue pubbliche italiane dedicate a figure femminili. I risultati della ricerca hanno confermato una presenza di donne nella statuaria molto bassa, che perpetua spesso stereotipi sessisti e con un rilievo al corpo femminile spesso ipersessualizzato tale da far pensare che una donna, per ottenere attenzione, debba essere nuda.
Il libro raccoglie i contributi di diverse ricercatrici, lavoratrici, studentesse, professioniste dei beni culturali con diversi ambiti di formazione. Tutte le autrici sono attiviste dell’associazione Mi Riconosci che si adopera sui temi inerenti la gestione del patrimonio culturale e le condizioni di lavoro nel settore.

STUE AMERICANE ABBATTUTE

Alessandra Lorini
Le statue bugiarde
Immaginari razziali e coloniali nell’America contemporanea

Ed. Carrocci (2023)
https://www.carocci.it/prodotto/le-statue-bugiarde
Estate del 2020, durante le proteste di Black Lives Matter: due giovanissime ballerine afroamericane danzano a Richmond, Virginia, sulla base del grande monumento del generale confederato Robert E. Lee, completamente ricoperta da graffiti di diversi colori; in un parco del Connecticut ignoti, di notte, decapitano una statua di Colombo e un’altra, nel Minnesota, viene abbattuta, in pieno giorno, da attivisti nativi americani con una cerimonia rituale; un importante museo newyorkese decide di rimuovere la statua equestre del presidente Theodore Roosevelt che troneggia da più di ottant’anni davanti all’entrata su Central Park. Che cosa ci dicono questi gesti iconoclasti della società americana odierna? Il volume ricostruisce la storia di alcuni monumenti pubblici altamente controversi nel contesto statunitense, svelando le narrazioni che li sostengono, mai neutrali e decisamente conflittuali. Chi ha voluto quelle statue? Quali storie bugiarde raccontano? Quali sono i gruppi sociali cancellati dalla rappresentazione monumentale? Si può creare una memoria pubblica più inclusiva?

Il Patrimonio dissonante – osservazioni e temi critici

Di: Silvia Chiodi

Intervento nel workshop DISSONANZE, aA cura dell’Associazione Faro Venezia
Tenutosi al Lido di Venezia il 4 dicembre 2023

L’articolo seguente è uno sviluppo di quanto esposto nel video.

Nella slide di apertura, accanto al sottotitolo “Osservazioni e temi critici” al patrimonio dissonante, ho volutamente posto un primo ed importante tema critico connesso alla distruzione di memorie non condivise: la creazione di un indice ideologico. Questo perché, come vedremo, il rischio c’è ed è molto forte e attuale.

Per introdurre il problema volevo soffermarmi sulla definizione di patrimonio dissonante. Il tema però è già stato affrontato da Lauso Zagato e da Giuseppe Maino a cui rinvio.

Ricordo solo che l’oggetto patrimoniale, in quanto oggetto, è di per sé neutro, non lo è in quanto patrimonio culturale. E’ il pensiero, l’idea, che si ha di quell’oggetto, la funzione di cui lo si ammanta etc. che può renderlo controverso per la comunità e/o per le persone o gruppi di persone ad essa estranea.

Faro Venezia ricorda, tra le altre cose, che tutti i vari casi di dissonanza si prestano molto bene ad essere occasioni di apprendimento del pensiero critico ed aperto. Attraverso la dissonanza è infatti possibile un’educazione al patrimonio per mezzo dell’adozione di un approccio critico, di dibattiti, di analisi che, in quanto tali, ci permettono, tra le altre cose, di capire perché un bene culturale viene o è stato percepito come controverso e al contempo di cercare di superare tale controversia.

Tutte le opere d’arte o meglio, tutto il patrimonio culturale – in quanto cultural – è di per sé potenzialmente controverso perché ha in sé la controversia insieme alla possibilità di non essere tale.

Poiché il patrimonio culturale in quanto portatore di valori, di simboli, di pensieri di ideologia, e di tanto altro ancora, non è neutrale le problematiche possono nascere anche da come lo presenti, come ne discuti e come ne parli.

Vorrei fare un esempio utilizzando una controversia che riguarda il discobolo Lancellotti. Reso all’Italia nel 1948, insieme ad altre opere illegalmente portate in Germania, ne è stata recentemente rivendicata la restituzione. La pretesa ha origine da una lettera in cui, da parte italiana, si richiedeva la base di marmo su cui poggiava la scultura. Richiesta a cui la Germania ha risposto richiedendo la restituzione dell’opera in quanto non trafugata ma venduta ad Hitler per volere di Mussolini (seppur vincolata dal 1909).

Ma perché ve ne parlo in questo contesto? In una mostra dal titolo Arte liberata. Capolavori salvati dalla guerra 1937-1947, allestita a Roma presso le Scuderie del Quirinale dal 16 dicembre 2022 al 10 aprile 2023, nella sezione Le esportazioni forzate e il mercato dell’arte troviamo il discobolo in questione.

Se il nostro sguardo si fermasse alla sola osservazione dell’opera d’arte contempleremmo la copia romana del celebre bronzo di Mirone e ne ammireremmo la bellezza e le forma. Ma se il nostro occhio superasse, come l’allestimento chiede, la statua, la stessa acquisirebbe di colpo un valore ed un significato profondamente diverso diventando potenzialmente controverso travalicando la prima potenziale domanda: a chi appartiene questa statua? Ponendone una seconda e più problematica: qual è il rapporto, se ve ne è, della statua con il nazismo e la sua ideologia? La risposta, a seconda del pensiero di chi la pone e risponde, cambia e può potenzialmente attribuire un carattere più o meno dissonante alla statua e provocare reazioni più o meno furiose.

Non mi soffermo su architettura e patrimonio dissonante e se Cadorna e Cialdini siano o meno stati criminali di guerra, ma sulla figura di Cristoforo Colombo e sulla diatriba che oggi lo riguarda: scopritore o colonialista?

Mente stavo preparando la lezione per l’Università, due opere, generalmente considerati miti, ma che tali non sono, scritti in sumerico e datati alla fine del III millennio a.C. (o sarebbe più inclusivo dire a.e.v = avanti l’era volgare) hanno attirato la mia attenzione proprio in merito alle questioni di cui sopra.

Ambedue le opere, intitolate dagli studiosi contemporanei: “Enki e il nuovo ordine del mondo” e “Enmerkar e il signore di Aratta”, non solo menzionano la presenza di colonie sumeriche che tentano, senza riuscirci, una ribellione (Aratta) o vengono “visitate” dal dio Enki durante una sua opera riformatrice “dell’ordine del mondo” e a cui il dio dispensa la sua benedizione o parole minacciose, elogiando le realizzazioni già ottenute. Colonie di cui conosciamo l’esistenza già dal periodo di Uruk (seconda metà del iv millennio a.C. ca) e nei cui testi in questione viene religiosamente giustificata l’esistenza e la funzione.

Documenti che, proprio sulla base di quest’ultima affermazione, dovrebbero essere condannati, distrutti, dimenticati.

Ma se così facessimo o se così fosse avvenuto noi avremmo perso due importanti documenti letterari ed al contempo a loro modo storici e fonti importanti per lo studio del colonialismo nell’antichità e che attestano che l’occupazione di territori oltre i confini nazionali non è caratteristica esclusiva del solo mondo occidentale, ma appartiene a molte culture e civiltà. Secondo alcuni studiosi, ad esempio, “l’espansione delle società di Uruk ha qualche somiglianza con l’espansione coloniale delle società europee nelle aree meno sviluppate del Terzo Mondo. Il fenomeno Uruk può essere caratterizzato come un primo esempio di un “impero informale” o “sistema mondiale” basato sullo scambio asimmetrico e su una divisione internazionale del lavoro organizzata gerarchicamente.”

Come tale, il fenomeno evidenzia l’importanza del dibattito e della discussione, oltre che di uno studio scientifico del tema, ed al contempo la necessità di una potenziale condanna dell’idea – in questo caso del colonialismo – che può svilupparsi in ogni cultura. In caso contrario, distruggendo ciò testimonia ciò che non ci aggrada, relegandolo alla sola cultura occidentale saremmo destinati ad una autodistruzione.

Problematiche simili le troviamo nella letteratura, nella mitologia, nei testi religiosi dove troviamo attestate idee e concezioni che oggi nessuno accetterebbe. Pensiamo, ad esempio al tema dello stupro. Un ratto famosissimo è quello di Europa per mano di Zeus. Violenza ricordata persino in una moneta europea (moneta di due euro greca) di cui però sembra che nessuno ne percepisca il valore negativo. Oltre a questo ricordiamo la pratica della schiavitù, il ruolo subalterno della donna, il problema dell’omosessualità e via dicendo.

L’importante è non distruggere ciò che la nostra sensibilità non accetta più, ma discuterne, discuterne e superare la problematica dandogli anche la giusta valenza storica e culturale. A tal uopo il bene culturale potrebbe essere utilizzato per favorire la formazione di un pensiero critico consapevoli che quel pensiero critico non è definitivo e potrebbe cambiare e svilupparsi nell’arco del tempo (e non solo in positivo).

Purtroppo non riesco a farvi vedere questo breve filmato– rimando perciò al link riportato nella slide – in cui tra le altre cose si menzionano le statue decapitate di Gudea, vissuto nel xxii secolo a.C. e che fu governatore della città di Lagash, con l’intento, secondo l’autore del filmato, di cancellarne la memoria storica.

Ora, al di là di Gudea, il senso della decapitazione, soprattutto delle statue che avevano ricevuto il cosiddetto rituale della apertura della bocca, era quello di “uccidere”, cancellandone la sua funzione. Quindi molto di più della cosidetta damnatio memoriae e della cancel cultur (se non quando applicata sulle tombe). In questi casi la statua non era considerata una semplice immagine o rappresentazione ma una duplicazione /sostituzione della persona di cui essa portava il nome. Essa era posta nel tempio, quando “il proprietario”, generalmente il sovrano, era ancora in vita con l’incarico di ricordare alla divinità cosa aveva fatto colui che rappresentava e chiedendo in cambio la vita; vita terrena e vita post-mortem. Per tale motivo, in teoria, la statua non poteva essere spostata dal luogo assegnatole anche con la morte del proprietario in quanto, attraverso la statua, il defunto continuava in qualche modo a vivere, ad essere presente in terra. Per questo l’iscrizione delle statue terminavano con delle maledizioni verso coloro che cancellavano il nome del proprietario, o la spostavano dal luogo in cui era stata posta e via dicendo. Certo non tutte le statue avevano subito il rito di apertura della bocca.

Dopodiché è chiaro che in una società multiculturale come la nostra si registra un surplus di sensibilità e di questo, per una serena convivenza, dobbiamo tenerne conto.

Il problema dei musei, soprattutto i grandi musei e non solo il British o il Louvre, sono stati per lo più impostati sulla base di una precisa filosofia della storia. L’idea infatti che sottende l’esposizione museale per lo più riflette le filosofie della storia e le ideologie del periodo.

Qual è stato il grande problema? Nasce dal fatto che se si continua ad esempio a esporre le opere d’arte secondo una visione storicistica di impianto Hegeliano o anche evoluzionista, non tenendo conto delle scoperte culturali e scientifiche avvenute nel frattempo che hanno cambiato dei presupposti teorici, significa che non solo si rischia di incorrere in un errore espositivo, ma anche offendere e calpestare la sensibilità di diverse persone e popoli. Se io ad esempio colloco l’arte sumerica vicino all’arte delle popolazioni oggi chiamate illetterate, ma allora “primitiva”, sto ponendo queste ultime, come gran parte anche del mondo africano, fuori da quella che chiamiamo storia, ma nella protostoria e / o preistoria con una precisa e parallela scala di valori culturali (i Sumeri, gli Egiziani e gli Assiri – Babilonesi ad esempio vengono collocati culturalmente prima dei Greci).

Se questo, sulle base delle conoscenze dell’800, poteva essere sostenuto, oggi le popolazioni illetterate vengono considerate contemporanee non più residui di una fantomatica preistoria e all’inizio della scala culturale.

ho fatto solo questo piccolo esempio e sono stata velocissima e forse anche troppo ma volevo proporvi delle provocazioni “riflessive”. Non solo di questi aspetti vorrei porre in evidenza non tanto il lato negativo e di protesta, ma quello positivo di crescita di consapevolezza e di rispetto. In caso contrario vi è il rischio distruttivo e di parallela creazione di un indice.

I più anziani fra noi si ricordano cos’era un indice culturale della chiesa cattolica e cosa ha significato questo per gli artisti, filosofi, musicisti, letterati, ma anche per i potenziali lettori.

Quindi attenzione al moralismo estremo. Usiamo il bene culturale per un dialogo, usiamolo il più possibile per conoscerci meglio, pensando che il mondo non è fatto di Buoni e Cattivi ma di tantissimi troppi grigi. Grazie.

WORKSHOP “DISSONANZE”

Il 4 dicembre 2023 Faro Venezia ha realizzato questo workshop sull’idea e le esperienze connessa al concetto patrimonio dissonate o controverso. Si tratta di un tema centrale nella Convenzione di Faro, che si sta rivelando come uno dei più ricchi di implicazioni e sviluppi.

E’ stato fatto anche uno sforzo non indifferente per documentare gli interventi (in parte a distanza) per poterli poi divulgare più facilmente.

Coordinatore scientifico: Lauso Zagato
Organizzazione e video: Adriano Devita

Sentiti libero di utilizzare i materiali seguenti con la licenza Creative Commons seguente (come per tutte le cose pubblicate in questo sito):

Attribuzione – Non commerciale – CC BY-NC

Playlist completa sui Youtube

Links diretti ai singoli video

Adriano Devita: interi, integri, integralisti. Alle origini della violenza.
https://youtu.be/GB6tlDYKsgo?si=kBjW97iXRMjGfqoQ
Il patrimonio come fattore di salute mentale.

Lauso Zagato: il patrimonio culturale tra dissonanza e divisività
https://www.youtube.com/watch?v=L6m3-Kl1ryk
Le differenze tra dissonanza diacronica, sincronica e di potere.
Ampia carrellata di casi importanti che illustrano le differenze tra i diversi tipi di dissonanze.

Giuseppe Maino e Donatella Biagi Maino: elogio della dissonanza cognitiva
https://youtu.be/5F7qAgpA6Bg?si=P6khSADm8hEKr74_
Riflessioni che partono dalla teoria della dissonanza cognitiva che lo psicologo americano Leonard Festinger elaborò a partire dagli anni ’50.

Paola Cosma – Decolonize Your EyesPadova
https://youtu.be/SAj2X9_unbM
Padova, come tante altre città del nostro paese, ha molti riferimenti alle colonie italiane nell’odonomastica e nell’architettura. Non sono solo gruppi “dal basso” a cercare di ri-significare questi luoghi, ma a volte anche le istituzioni

Silvia Chiodi: patrimonio dissonante – osservazioni e temi critici
https://youtu.be/rd5J0nfpLbQ?si=8oP3ovQQd14rdpmr
La possibilità di dare interpretazioni diverse di uno stesso oggetto patrimoniale senza che questo generi censure o conflitti violenti è ciò che distingue una democrazia da una dittatura e ha un forte valore educativo.

I relatori

Adriano Devita, psicologo e antropologo. Si è occupato principalmente di programmi e progetti pilota di formazione di gestione della conoscenza per il sistema delle PMI e di politiche attive del lavoro. In campo culturale è socio fondatore di Faro Venezia, del Faro Lab, del Forum Futuro Arsenale e di altre comunità patrimoniali. E’ fondatore e direttore del Venice Intercutural Film Festival, che si occupa di dialogo interculturale. Il suo interesse principale ora riguarda i sistemi di democrazia partecipativa in campo culturale.

Lauso Zagato, già professore di diritto internazionale e UE, e direttore del centro studi sui diritti umani (CESTUDIR) Università Ca’ Foscari-Venezia. Nei due ultimi decenni si è occupato in particolare di protezione del patrimonio culturale nei conflitti armati e di salvaguardia del patrimonio culturale intangibile. Attualmente è membro di Faro Venezia e coordina il gruppo di ricerca su “Protezione del patrimonio e delle identità/differenze culturali in caso di conflitto o di altre emergenze” (operante sotto l’egida di Ve.Ri.Pa.).

Giuseppe Maino, fisico teorico, è autore di oltre 450 pubblicazioni scientifiche e quattro libri su argomenti di fisica nucleare e della materia condensata, di matematica applicata, di diagnostica non distruttiva applicata alle opere d’arte. Ho ideato e diretto progetti di ricerca nazionali ed europei, organizzato 39 convegni internazionali ed insegnato presso università italiane e straniere, oltre ad essere stato direttore di ricerca dell’ENEA, ente nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente.

Donatella Biagi Maino è professore associato di storia e teoria del restauro presso l’Università di Bologna. E’ autrice di monografie e saggi sulla pittura italiana del Seicento e Settecento; si occupa di conservazione e salvaguardia dei beni culturali a rischio e su questi temi ha coordinato progetti di ricerca e organizzato convegni internazionali di studi, oltre a condirigere la collana di volumi di Storia e Teoria del Restauro presso l’editrice EDIFIR di Firenze.

Paola Cosma è una ricercatrice, attivista e regista indipendente. Si è laureata in Scienze dello Spettacolo e Produzione Multimediale con una tesi Figure femminili nel cinema delle banlieues presso l’Università di Padova. E’ attivista nell’ASD Quadrato Meticcio e Decolonize Your Eyes. Conduce il doposcuola di quartiere presso l’Asd, organizza eventi e attività sociali e realizza prodotti audiovisivi, utilizzandoli come strumento di relazioni sociali e ricerca sociale in particolare con minori e adolescenti.

Silvia Chiodi, è dirigente di ricerca all’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle idee del CNR di Roma e docente a contratto di Arte e culture del Vicino Oriente antico per il Corso di Laurea in Teoria e storia delle arti e dell’immagine dell’Università Vita – salute del San Raffaele di Milano. A seguito delle personali esperienze in Iraq e in Libano (1993- 2006) si occupa, tra le altre cose, di protezione del patrimonio culturale durante i conflitti armati. Dal 2004 è stata insignita Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana per motu proprio dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Partecipa al gruppo di ricerca su “Protezione del patrimonio e delle identità/differenze culturali in caso di conflitto o di altre emergenze” (operante sotto l’egida di Ve.Ri.Pa.)

Cantigos in Carrela

Nell’isola di Sardegna dove le tradizioni musicali sono tra le più antiche e interessanti del mediterraneo, si distingue certamente Santu Lussurgiu, centro noto per il prezioso patrimonio del canto a Cuncordu, fra i più apprezzati della Regione. Ed è grazie alla passione dei Cuncordu Lussurzesu e dell’Associazione Culturale “Aidos”, che Santu Lussurgiu deve il successo di Cantigos in Carrela, manifestazione nata da un’idea dei cori di Florinas, Muros, Tempio Pausania e Pozzomaggiore. Giunta alla 26″ edizione, a Cantigos in Carrela hanno partecipato alternandosi, tantissime formazioni vocali proponendo i loro repertori; Cuncordos e Tenores in primis, ma anche cori e formazioni strumentali di diverse estrazioni culturali provenienti da altre realtà italiane e dall’estero si sono esibiti nelle diverse edizioni, dislocati in zone prescelte del suggestivo centro storico di Santu Lussurgiu, tra i meglio conservati in Sardegna. Gli spettatori durante la serata hanno la possibilità di seguire un percorso sonoro, a stretto contatto con gli esecutori, che riporta alla mente la festa così come era un tempo. Infatti, nel contesto di Cantigos in Carrela, c’è l’abbattimento del palco che normalmente rende (per definizione), spettacolo qualunque cosa passi sopra di esso, facendo diventare al tempo stesso estranei i fruitori della festa, costretti ad assistere invece che essere i fautori della festa stessa. La gente nei contesti tradizionali non assisteva alla festa in maniera passiva, la gente era la festa non semplicemente un pubblico. In questi ultimi anni ha prevalso l’idea che l’unica maniera di proporre e vivere le tradizioni sia possibile solo attraverso le esibizioni in palchi o televisioni locali, “spettacolarizzando” il tutto secondo un orientamento globalizzante, qui inteso nell’accezione più negativa del termine. Cantare in strada era per i Sardi cantare alle ragazze, era un seducente strumento per corteggiarle attraverso le serenate ma non solo, era anche l’occasione, per i novizi, di mettere in mostra le proprie qualità vocali e sperimentare le varie formazioni che si costituivano spontaneamente in un microcosmo nel quale cantare era uno dei pochi modi di fare musica. Naturalmente si è ben lontani dall’estinzione di un patrimonio che continua-mente da segnali di grande vitalità, come a Santu Lussurgiu, dove oltre ai vari Cuncordos riconosciuti, capita che formazioni anche estemporanee, si riuniscano occasionalmente, spesso in magasinu, per il solo piacere di cantare a Cuncordu. L’occasione per il pubblico in Cantigos in Carrela, è anche quella di vedere gli scorci tipici del centro storico, oltreché la possibilità di sentire i canti e le musiche a pochi centimetri dalla fonte sonora, gustando magari un buon bicchiere di vino, offerto agli ospiti Istranzos dai Iussurgesi, che “estendono” le proprie cantine in strada, secondo l’innato senso di ospitalità.

SAVERIO PASTOR VENEZIANO DELL’ANNO 2023

Pubblico qui integralmente il discorso di ringraziamento di Saverio Pastor, decano dei Rèmeri veneziani e antico sostenitore dei principi della Convenzione di Faro. Saverio Pastor è stato nominato veneziano dell’anno per il 2023. Può darsi che i non-veneziani non sappiano esattamente che cos’è un Felze o quali sono i mestieri artigiani che vi ruotano attorno. Se non lo sapete vi consiglio vivamente di visitare il sito della loro associazione: https://www.elfelze.it/

NON NOBIS DOMINE, NON NOBIS.

Quando amichevolmente mi dissero che la scelta del veneziano dell’anno era caduta su di me, ho avuto l’istinto di alzarmi e andarmene. Ben altre personalità vedo più adatte: sensibilità più raffinate, cultura eccelsa, abilità più ardite. Poi, leggendo meglio le motivazioni, mi son detto che finalmente si presentava l’occasione per ringraziare tutti i remèri e tutti gli artigiani, passati presenti e futuri. In effetti, diciamolo, sono stati bravi, siamo stati bravi.

È forse giunto il momento di riconoscere che il lavoro dei remèri è stato essenziale per la nascita stessa della città e poi per la sua crescita come potenza economica, commerciale e militare; è ora di ringraziare i misteriosi proto-remèri che costruirono quei remeggi necessari ad esplorare e colonizzare quella laguna ancora disabitata. E ricordiamo quindi le migliaia di remèri che hanno reso possibile la nascita e la vita della città col loro lavoro, modesto ma strategico, faticoso ma essenziale.

È ora di ricordare Artico Massario con bottega nell’attuale Campiello del remèr: è il primo remèr di cui si abbia conoscenza scritta, su un contratto di esattamente 800 anni fa, per la realizzazione di 1.000 remi in frassino per l’Arsenale.

Vanno salutati quegli ignoti Maestri che nel 1307 presentarono il testo della mariegola dell’arte da far finalmente approvare dai preposti 3 Giustizieri vecchi.

E salutiamo con affetto quei volti ormai noti dell’insegna dell’arte dei remèri, commissionata nel 1517 da Maistro Nicholò de Marcho Marchovichio dito de Andronicho, gastaldo de l’Arte de remeri et i suoi compagni, con il garzone al centro, con il catalogo delle tipologie di remi e delle lavorazioni e con due forcolette relegate al margine.

Anche senza la corporazione, soppressa da Napoleone, anche sotto il dominio francese e poi austriaco, anche nella più profonda crisi economica seguita alla caduta della Repubblica, i remèri hanno continuato a rifornire le barche e la città degli essenziali remi e forcole.

La vera crisi è ovviamente arrivata con la motorizzazione generalizzata avvenuta tra gli anni 50 e 60. In quel frangente quanto bravo è stato il mio, il nostro Maestro, Bepi Carli, con Gino Fossetta, a salvare la sua bottega e il nostro mestiere? Lo ha fatto con gesto semplice, ma geniale, per certi versi rivoluzionario in quel contesto; ha tolto la forcola dalla barca e l’ha messa su di un piedistallo facendola diventare altro, un oggetto plastico e simbolico apprezzato in tutto il mondo per le qualità che lo connotano, tra funzionalità sofisticata e bellezza scultorea.

Ed è giusto ringraziare noi attuali remèri, siamo 5 maestri in 4 botteghe, io sono il più anziano e con me da quasi 20 anni lavora il più giovane, Pietro Meneghini, mentre Paolo Brandolisio, Franco Furlanetto (già mio allievo) e Piero Dri presidiano la città dalle loro 3 botteghe. Li ringrazio per come affrontano, assieme a tutti gli altri artigiani, l’attuale grave crisi che attanaglia la città, crisi demografica, antropologica e sociale, che con il precipitare del numero di abitanti vede diminuire ben di più il numero di persone che vanno in barca, a remi.

Per combatterla, nel 2002, abbiamo immaginato che fosse necessario fare rete. Con gli altri artieri de gondole et suoi fornimenti abbiamo inventato l’associazione El Felze, per contarci, per contare e per raccontare chi siamo e cosa facciamo. Purtroppo, a contarci ci mettiamo sempre meno perché abbiamo perso molti colleghi, anche grandi Maestri, di cui sentiamo già la gran mancanza -ciao cari-.

I maestri artigiani di El Felze


All’inizio abbiamo contato parecchio anche per il territorio Veneto e le Istituzioni che lo governavano, ed abbiamo vicendevolmente collaborato ad importanti iniziative anche all’estero, mentre ora evidentemente altri problemi attanagliano le Amministrazioni. Invece siamo diventati piuttosto bravi a raccontare anche grazie a chi di comunicazione e grafica se ne intende.

Nel frattempo, grazie a quello che chiamo il nostro corpo accademico, di cui la professoressa Elisa Bellato fa parte, abbiamo imparato anche a conoscere la Convenzione UNESCO del 2003 sulla Promozione e Protezione del Patrimonio Immateriale e quella del Consiglio d’Europa del 2005, stipulata a Faro, che spinge la collettività a rendersi consapevole fruitrice dei propri patrimoni e a farsi comunità patrimoniale. Per queste convenzioni noi artigiani, saremmo dei “portatori sani” di patrimoni culturali ed essere artigiani oggi vuol dire anche questo: farsi carico di un ruolo sociale e culturale.

Ringrazio quindi tutti i colleghi de El Felze per aver creduto in questa sfida e per il lavoro considerevole per la valorizzazione del nostro patrimonio culturale immateriale che è stato addirittura premiato dalla città coreana di Jeonju.

Anche per questo abbiamo lanciato el disnar per la regata storica: occasione di incontro e di convivialità tra cittadini, e ringrazio le centinaia di persone di decine di associazioni, della città e del litorale, che hanno voluto credere in questa proposta. Perché promuovere la voga, le regate, la cantieristica è indispensabile alla nostra specificità anfibia.

Perciò questo è un riconoscimento a tutti gli artigiani, ma anche a tutti coloro che della città fanno sopravvivere i suoi aspetti essenziali: gondolieri, regatanti, piccoli commercianti. Insomma a tutti i veneziani che vivono sotto al motto di resistere, resistere, resistere!

Ovviamente non parlo più solo di noi della gondola, di noi della filiera lunga della cantieristica, ma parlo di tutto l’artigianato veneziano perché Venezia è stata capitale delle manifatture e di queste ancora permane qualche buon lacerto.

Resistiamo ad un mercato immobiliare impazzito, alla cultura dell’happy hour che porta alla sostituzione delle botteghe con gli ennesimi baretti, alla gran festa del turismo di massa e dell’airB&B che scaccia i nostri clienti d’elezione lasciando vuote e sterili cassettine con numeri segreti, resistiamo alla legge del prodotto seriale e all’omologazione. Ma la nostra città non è omologabile senza la sua morte.

Ringraziamo anche le nostre Amministrazioni, a tutti i livelli, che da oggi si impegneranno veramente con maggior decisione e con la collaborazione delle associazioni del territorio:

  • nell’inversione della tendenza all’esodo dalla nostra città,
  • nell’investire seriamente in progetti volti a riaffermare la specificità anfibia della nostra civiltà, nell’educazione dei giovani assieme alle società remiere;
  • di investire nella rappacificazione con le acque e quindi
  • in una mobilità per quanto possibile moderna ma realmente sostenibile, rispettosa e razionale;
  • di spendersi e spendere per far di Venezia quantomeno un centro nevralgico e vitale, non solo espositivo, delle arti applicate e dell’artigianato tipico e tradizionale: un polo di rilevanza Europea dove le arti si riconoscano e si confrontino;
  • di offrire altre nuove ricche opportunità all’uso dell’Arsenale.
  • di farsi volano perché si coagulino delle comunità patrimoniali attorno ai beni di cui ancora possiamo beneficiare e di cui dobbiamo esser orgogliosi, spingendo verso nuove candidature a Patrimoni dell’umanità: dalle perlère al vetro, dai mestieri della gondola al mestiere del gondoliere, dalla voga alla veneta alle regate, dalla tessitoria al merletto, dai mestieri del restauro monumentale a quelli delle manutenzioni;

Ovviamente ho molti ringraziamenti più personali da fare.

Ringrazio quindi Bepi e Gino da cui ho imparato il mestiere. E ringrazio chi mi ha accompagnato in questo apprendimento che dura tuttora: Vittorio Marcoleoni e tutti gli amici della Spazio Legno.

Ringrazio la Regione del Veneto per avermi attribuito il titolo di Maestro Artigiano e la Fondazione Cologni per avermi riconosciuto quello di Maestro d’Arte e Mestiere. Mi hanno offerto così lo stimolo a realizzare un progetto che da anni giaceva in un cassetto: a ottobre farò una mostra a Parigi dove trasformerò una galleria in laboratorio, dove lavorerò e dove racconterò il ruolo di questo mestiere nella nostra cultura. Una nuova avventura, personale, per la quale cerco sostegni e sponsor, che spero possa far parlare di Patrimonio Culturale Immateriale.

Ringrazio quindi questo Comitato Veneziano dell’anno perché mi dà un’ulteriore investitura di ambasciatore, di portavoce riconosciuto da questa comunità.

Ringrazio, oltre ai remeri, i colleghi che hanno dato vita a el Felze Giuliana Longo, Elisabetta Mason, Ermanno Ervas, Roberto Tramontin, Marzio De Min, Emilio Ballarin, lo studio Scibilia, Gianfranco Munerotto e Adrian Smith che hanno dato una fondamentale mano nella comunicazione; così come i nostri amici suggeritori Simona Pinton, Clara Peranetti, Lauso Zagato e Adriano De Vita, oltre ad Elisa Bellato.

E un pensiero va alla mia famiglia di origine: a Valeriano, a Michelina e a mia sorella Barbara che hanno sempre avuto un approccio alla loro professione di architetti come fosse un mestiere artigiano, dove si progetta, si disegna, si realizza con dedizione, controllando i dettagli, ricercando la migliore funzionalità senza rinunciare al buon risultato estetico. E poi l’imprinting non è stato banale con le frequentazioni delle botteghe dei migliori artigiani, per visite e sopralluoghi.

E quindi il ringraziamento va poi alla famiglia costruita con Agnese, che vede in Tiziano e Giacomo i nostri meravigliosi tesori.

E infine quella che è la mia seconda casa, la bottega, dove appunto Piero ha un ruolo sempre più da protagonista mentre Enrica Berti e Fabiana Ceccarelli cercano di integrare le grosse smagliature amministrative assieme agli amici della CNA. E certamente ringrazio tutti i fornitori, trasportatori e collaboratori che ci permettono di portare a termine il nostro lavoro di remèri del terzo millennio.

Grazie a tutti

Lauso Zagato: il patrimonio culturale tra dissonanza e divisività

Dal workshop DISSONANZE, a cura dell’Associazione Faro Venezia
Lido di Venezia 4 dicembre 2023

NOTA: il testo che segue è un versione ampliata e corretta rispetto ai sottotitoli presenti nel video. Il parlato infatti presenta imprecisioni che possono rendere di difficile comprensioni alcuni passaggi rilevanti. I sottotitoli possono essere attivati in inglese, francese a altre lingue.

Il disastro sul patrimonio dissonante – che poi non è solo dissonante forse, o controverso, ma più che altro divisivo in senso radicale – ha come punto di partenza l’intervento della professoressa Ben Ghiat del 2017: ci torno verso la fine.

Cosa possiamo dire intanto di generale per entrare nella situazione odierna? Che nel periodo che ha fatto seguito alla caduta del muro di Berlino sempre più spesso l’oggetto privilegiato delle iniziative militari nelle zone di conflitto diventa la distruzione di ogni traccia dell’altrui esistenza e quindi dell’altrui vestigia culturali. Se uno è stato come è capitato a me in Kossovo al tempo della crisi vedrà come i serbi avessero portato via (portato a Belgrado) le vestigia culturali di tipo albanese, e gli albanesi si sarebbero poi vendicati non massacrando i serbi come temevano – perché non avevano capito nulla! – le truppe occidentali che erano lì. C’era una logica profonda: l’elemento albanese del Kosovo si vendicò distruggendo le grandi chiese serbo-ortodosse del 1300 e 1400, grandi capolavori dell’umanità. Lo fece senza presenza di soldati dell’ONU e soldati dell’Alleanza Atlantica, perché non avevano capito niente. Questi pensavano di dover proteggere i bambini le donne eccetera. Non avevano capito su quale schema di distruzione dell’identità altrui si stava evolvendo quel terribile conflitto (Anche se io dico terribile per allora, adesso è stato superato da conflitti ben più terribili di allora. Però come arriviamo alla dissonanza? Perché se io parlo semplicemente di inimicità e di distruzione dell’identità altrui, non c’è dissonanza È ovvio che è quello è il nemico. Il sindaco di Zvornik, città serba bosniaca, disse: “There never were any moskey in Zvornilk!” voleva dire che avevano distrutto tutte le moschee e tutte le tracce della componente islamica della ex Yugoslavia e quindi tutti felici gridavano “Non sono mai esistite moschee a Zvornik”. Questo è un discorso di distruzione pura dell’identità e della memoria del nemico come spesso si sono fatti da vari punti di vista.

Dal punto di vista opposto abbiamo il patrimonio conteso. Qual è il patrimonio conteso? E’ un patrimonio che due gruppi in lotta fra loro entrambi rivendicano. Se vogliamo un esempio chiaro sono le tombe dei Profeti nella zona di Ebron. Israeliani e palestinesi si sono uccisi cica poco in quella zona (qualcuno disse, quando si parlava di pace, che il punto più debole di tutta la Palestina su cui pensare di fare la pace era quella zona). Ma nessuno distrusse nessuna delle tombe perché questi si ammazzavano Perché dicevano che le tombe erano loro (come sapete Mosè è il terzo grande profeta dell’islam, quindi anche l’Islam cerca di tenere a sé tutte queste tradizioni) Questo era un caso di patrimonio conteso. La contesa in altri casi ha una causa banale, per decidere chi controlla certi beni che possono servire a far soldi. Ricordate che Thailandia e Cambogia si sono sparate mica poco dopo la fine dei Khmer rossi ma si sono sparati perché entrambi volevano la zona di confine dove sorgono le grandi rovine di Angkor Vach, Angkor Vat scusate. E’ una situazione simmetrica alla precedente perché il conflitto anche sanguinoso avviene tra comunità e gruppi di di gruppi contendenti che però vogliono risparmiare i beni, perché ciascuno lo considera suo; è il contrario della cosa detta prima, in cui i due gruppi si combattono alla morte e quindi distruggono anche il relativo patrimonio culturale

C’è una brutta considerazione che devo fare, molto triste.
Quand’anche nel corso di un conflitto armato un bene culturale venga risparmiato da entrambi i contendenti, non è detto che ciò sia perché entrambi i contendenti hanno un punto di vista superiore, e quindi dicono: ci facciamo la guerra ma decidiamo qua di lasciare un’area di pace. No, è perché si stanno ammazzando per chi controlla quei beni, e quindi tutti e due stanno molto attenti a non distruggerli. Persino quando le vestigia siano immateriali – nei casi che ho citato finora sono materiali – e siano in qualche modo risparmiate, non è detto che questo corrisponde a una visione superiore da parte dei contendenti: questi pensano semplicemente di ammazzarsi fino all’ultimo, in modo che poi quel patrimonio resti a loro, come ha detto molto bene – quindi evito di ripeterlo – il professor Giuseppe Maino.

Prima – noi ne parliamo con un certo orgoglio perché nelle FAQ che Faro Venezia ha fatto per aiutare la co0mprensione della convenzione di Faro, la FAQ numero 12 è dedicata appunto al patrimonio dissonante – abbiamo individuato tre forme di dissonanza (non che le abbiamo inventate noi naturalmente). Queste tre forme di dissonanza sono la dissonanza sincronica , quella diacronica – e tutti capite cosa vuol dire: la prima è quando i due gruppi umani hanno visioni diverse opposte contemporaneamente su un certo fenomeno, quella diacronica è quando gli sviluppi successivi di una certa civiltà diventano totalmente contraddittori con quella precedente. Poi c’è la dissonanza di potere che si riferisce al potere di definire cosa sia e cosa non sia patrimonio culturale, potere che negli Stati europei tradizionalmente è appannaggio di certe élites. Tralascio di approfondire questa parte del discorso (in altra sede invece mi ci soffermerò a lungo). L’élite francese è sempre stata padrona assoluta di questa materia, e questo a mio avviso è il motivo per cui purtroppo la Francia temo che non ratificherà mai la convenzione di Faro. Però se ci mettiamo a parlare della Convenzione di Faro, non romane il tempo per parlare di altro. (di questa convenzione ricordo che definisce le comunità patrimoniali insiemi insiemi di persone che attribuiscono valore ad aspetti specifici del patrimonio culturale, eccetera).

Dissonanza di potere si riferisce al potere di definire cosa sia e cosa non sia patrimonio culturale, che spesso è appannaggio esclusivo di certe élites che non vogliono “mollare” neanche un osso e avocano a sé sole il potere di dire di dire questa cosa. Faccio presente che nel seguito della risposta alla FAQ 12 noi diciamo una cosa assolutamente congrua con quanto ha detto adesso Giuseppe, e cioè che i casi di dissonanza si prestano molto bene come occasioni di apprendimento del pensiero critico aperto, gosso modo una cosa molto simile a quella che è stata detta. Allora non ci frequentavamo, ma vedete che riusciamo anzi riuscivamo in qualche modo a convergere sulla centralità dell’educazione al patrimonio.

Sono costretto a stringere, e arrivo al punto: qui però è dove il mondo contemporaneo ci offre l’evidenza del permanere e addirittura rafforzarsi di rotture incompatibili reciprocamente, manifestazioni di un odio che si alimenta e che è sviluppato attorno ad un patrimonio radicalmente divisivo in modo vieppiù forte col passaggio del tempo. Ci sono tanti esempi di questa cosa, ne citerò solo due (uno mi sta a cuore perché è l’unico esempio in cui forse emerge la risposta positiva).

Ricordo intanto che non c’entrano niente i Buddha di Bamyian. Se è vero che nel secolo XIII l’Islam era penetrato da secoli nell’Afghanistan occidentale, non era giunto alla pianura dove erano i Budda. La cultura buddista afghana ricca potente e forte, venne sterminata in 2 anni non dagli islamici ma da una spedizione dall’est guidata in persona – credo che sia l’ultima grande spedizione guidata in persona da Genghis Khan. Cosa ci andava a fare là? Forse perché questi avevano dato ospitalità a uno dei suoi nemici storici e lui tutti quelli che avevano ospitato i suoi nemici di gioventù … non solo continuò fino alla vecchiaia a cercare i suoi nemici di gioventù per ucciderli, ma già che c’era a ammazzare in qualunque modo chi li avesse aiutati. Quindi fu una spedizione mongola che eh sterminò la civiltà della Valle portando via schiavi i sopravvissuti ( donne, ragazzi che potevano servire). Nel tempo gli islamici, muovendo verso ocidente, scesero a valle, trovarono queste vestigia e risorse, e ovviamente furono molto contenti perché vi colsero la prova del favore divino: come dire la prova che la vera religione era la loro. Dio li aiutava, anche risparmiando loro di dover fare conflitti, perché si impadronirono praticamente senza ulteriori conflitti dell’intero territorio (donde la riunificazione dell’intera etnia pashtun sotto il credo islamico).

Per molto tempo all’islam afgano, che pure era radicale, non passò minimamente per la testa di distruggere le statue, perché erano una cosa aliena, una cosa che loro avevano trovato, non un simbolo concreto di una credenza avversa alla loro fede.. La cosa divenne invece differente, anche per errori commessi dall’Unesco di cui è inutile che qui parliamo, durante la crisi degli ultimi 10-15 anni del regime dei talebani. Quindi si tratta di dissonanza diacronica interno alla stessa civiltà (gruppo etno-linguistico se vogliamo).

Se avessimo più tempo io mi soffermerei in particolare su alcune vicende intercorse nell’est asiatico tra Giappone e Corea. Il Giappone ne ha fatto di tutti i colori danni dei coreani ma anche dei cinesi : pensate alle Confort Women, ma poi pensate soprattutto al monumento shintoista ai criminali di guerra (alcuni dei quali vennero giustiziati al processo di Tokyo), ma la cosa è andata avanti tranquilla e nessuno ha detto niente, (e perché il Giappone serve nella contesa contro la Cina (prima contro l’Unione Sovietica) per cui il Giappone fa quello che vuole, anche quando mette in serio imbarazzo gli Stati Uniti e crea rabbia nei coreani oltre che nei cinesi. Bene, l’ l’industrializzazione del Giappone tra la fine dell’800 all’inizio del ‘900 era avvenuta tramite praticamente schiavi coreani; quando venne candidata alla Lista del patrimonio intangibile dell’Unesco la prima l’industrializzazione del Giappone (fine 800: il riferimento è al processo, quindi una espressione culturale intangibile ), l’Unesco dice: Ah, molto bene, il primo paese non-europeo che portò avanti l’industrializzazione simile o analoga a quella dell’Occidente senza esserlo! La candidatura merita di essere accolta. La Corea replicò: almeno dite, almeno dite che in quel processo ci sono stati circa 60.000 morti in pochi anni, non robetta, 60.000 morti coreani, morti di stenti dopo essere stati fatti lavorare ad esaurimentio. Orbene, il Giappone non lo fece, e addirittura un ministro giapponese qualche anno fa ha dichiarato che “la Corea ci dovrebbe ringraziare per la nostra colonizzazione degli inizi del 900!”. Ci vuole coraggio misto a mancanza di vergogna: altro che alleati! alleati perché le situazioni politiche internazionali lo impongono, ma voi capite che cosa c’è dietro e di quale radicale divisività siamo in presenza. Mi fermo qui, questa è una cosa drammatica e allo stato priva di soluzioni.

C’è una altro caso di cui devo parlarne un poco (quindi tu, presidente, dammi un calcio se perdo tempo) perché altrimenti non finisco il ragionamento: è il caso di Oradour-sur-Glane (tra l’altro c’è un bellissimo libretto dell’Antonella Tarpino, Geografia della memoria, che poi faccio vedere, mentre parla la nostra Paola io vado a prenderlo, cerco di farlo girare). Allora cosa è successo a Oradour nel corso della guerra? Truppe naziste guidate fisicamente da volontari alsaziani (sapete che quando la Francia venne conquistata, Alsazia e Lorena tornarono a far parte della Germania come fino alla prima guerra mondiale, e ci fu naturalmente la coscrizione. In Lorena., eh, accettarono perché bisognava, invece in Alsazia ci fu una sorta di gara per arruolarsi nell’esercito tedesco, ma in particolare nelle SS che fa degli alsaziani il gruppo non Tedesco – anche se li avevano reinseriti nella Germania – più numeroso a Occidente all’interno delle SS. Certo, i numeri dell’Ucraina sono senza confronto, ma non possiamo parlarne in questa serie perché è troppo complesso, insomma, entrarono in paese e fecero una strage. Il paese non volle mai ricostruirsi, si ricostruirono alcune abitazioni all’esterno, in parte, e si mantenne la memoria dell’orrore che era avvenuto. I superstiti si posero a guardia della memoria che non venisse cancellata. Intanto venne fatto un processo farsa e tempo 5 anni (a parte che il processo già venne fatto nel ’53, una parte dei responsabili venne mandata a casa, furono condannati a morte il comandante dei tedeschi e quello alsaziano, che chiaramente risultava per cartas essere un volontario, e quindi non poteva passare per un povero militare coscritto, anzi era il volontario che li aveva portati lì), vennero liberati tutti. La memoria quindi tendeva a sparire in Francia, o meglio rimaneva nel posto, come fatto locale. Si creò una contrapposizione radicale tra ma memoria ufficiale della Francia e quella degli abitanti di Oradour, un contrasto assoluto: si tratta di una divisività che io giudico nata come divisività diacronica, ma che poi si è sincronizzata per così dire, quindi è diventata sincronica e diacronica in modo terribile ad uno stesso tempo.

C’è qualcosa invece di diverso nel seguito della vicenda, c’è qualcosa di diverso perché con il passare del tempo si verificò un fatto nuovo. Pensate che i giovani erano molto arrabbiati del fatto che tutto fosse memoria del passato, ci fu anche un’elezione politica negli anni 90 in cui ebbe un forte successo in Paese del Fronte Nazionale, cosa che pare assurda: erano i giovani che volevano liberarsi della prigione di una memoria immobile. Il punto è che quella memoria, i vecchi l’avevano organizzata e mantenuta viva molto bene: avevano tenuto i negozi e le attività artigianali. Molti di questi esercizi commerciali ed artigianali in Francia non ci sono più, e l’unico luogo dove sono ancora ben documentati è Oradour.

Si tratta di uno dei rari casi che io conosca in cui un confronto radicale, intriso di odio, di divisività assoluta si è trasformato col tempo in una forma di dissonanza diacronica che ha via via perso i più duri connotati di sincronia; adesso, senza cancellare la memoria della tragedia passata, gli studiosi, i giovani, il turismo colto se vogliamo, vanno a studiare le rovine di Oradour, ormai uniche nel loro genere, in quanto memorie della vita nella Francia contadina durante la prima metà del secolo scorso.

Se non è chiaro, ripeto che ad Oradour è stato proibito per decenni di ricostruire in paese, gli abitanti dal paese si erano fatte piccole costruzioni al margine esterno, e vigilavano che nulla intervenisse a cambiare la reaaltà fisica del paese distrutto. Grazie a ciò, Oradour si è trasformato nel tempo nell’unica (o una tra le rare) fotografie della Francia degli anni ’30-’40, che mantiene vive tradizioni di vita quotidiana altrove ormai dimenticate. Potrebbe essere una indicazione in qualche modo positiva.


Dopo questa panoramica, torno al quesito iniziale: cosa avrebbe detto di scandaloso la professoressa Ben Ghiat nel 2017 da far nascere il pandemonio che è derivato? Ha detto semplicemente che, a differenza di quanto avvenuto in Germania o negli Stati Uniti, in Italia Invece la memoria del passato non viene minimamente cancellata. Io avrei qualche dubbio sulla veridicità della sua affermazione per quanto riguarda Stati Uniti e Germania, ma convengo in pieno a proposito dell’Italia.
Lei fa riferimento al fatto che in Germania è proibita la presentazione dei simboli nazisti E poi ovviamente fa riferimento, per quanto attiene agli Stati Uniti, alla volontà di rispondere alla brutalità della polizia liberandosi dei segni più orribili dell’esperienza della Confederazione. Fino a questo punto però sarebbe una denuncia politica: i cupi simboli del fascismo sarebbero presenti in Italia più che in altri Paesi europei, e si tratterebbe di discutere sul perché del perrmanere di tale spregevole lascito di memorie. Lei dice però un’altra cosa, che è quanto – scusate il termine ma permettetelo -fa incazzare “come ladri” (quasi) tutti gli specialisti della cultura del patrimonio italiano Lei dice che, certo, tenendo in piedi tale eredità, l’Italia fa’ piacere ai fascisti italiani, che ne godono. Solo che non è questo il punto centrale del ragionamento della Ben Ghiat: sviluppando una originale linea di pensiero la studiosa punta in una direzione inaspettata, ed è questo che ha causato la generale levata di scudi. Lei punta ad un altro target: fa intanto una panoramica che, scusatemi, è proprio terribile. Si comincia con il famoso primo ministro Renzi – personaggio che ha dato, come noto, grandi contributi allo sviluppo civile e culturale dell’Italia – il quale candida ufficialmente l’Italia all’organizzazione delle olimpiadi del 2024 (che poi invece sono andate a ad altri, alla Francia) collocandosi di fianco al dipinto “Apoteosi del Fascismo” all’Eur, dipinto che era stato coperto dagli alleati, ma poi scoperto in quanto capolavoro della pittura italiana, (ma perché mai?) dall’allora sindaco di Roma Veltroni. Già questo non sarebbe un episodio proprio bello, ma poi viene richiamato il memoriale in Liguria in onore del generale Graziani: stiamo parlando del – non ho problemi a dichiararlo, mi auguro che nessuno dei presenti si arrabbi – del maggior criminale di guerra italiano, che se l’è cavata perché l’Italia serviva agli Alleati subito dopo il conflitto, ma avrebbe dovuto stare a Norimberga (basti ricordare i crimini commessi anche prima della militanza nella Repubblica di Salò, a partire dalle stragi in Libia). Ci fu, per fortuna, una grande risposta di indignazione, e quindi le autorità regionali della Liguria sospesero i finanziamenti. Tutto bene quindi, ma l’assurdo è che si trattava di amministrazione regionale del centrosinistra. Io non voglio mettere il discorso in politica Ma come diavolo potevano quegli amministratori ritenere che questi crimini orrendi fossero tutti “cose superate”? Vado oltre: non è che ci fossero tra loro agenti infiltrati per conto del neo-fascismo, magari fosse una cosa tanto semplice! Gli sciagurati pensavano davvero che si trattasse di lasciti ingombranti della memoria del passato, e che fosse una cosa saggia e intelligente metterci, alla lettera, una pietra sopra. Questa è esattamente la conclusione cui arriva la professoressa americana: i monumenti del Fascismo sono trattati in Italia come oggetti estetici del tutto depoliticizzati , quindi essendo passato molto tempo si sarebbe persa traccia del loro carattere divisivo? Ma è davvero così?

Non vado avanti nella puntigliosa ricostruzione di quanto analizzato dalla Ben Ghiat, anche perché se ne occuperà un intervento successivo, poi magari riprenderemo il tema nella discussione Mi soffermo solo, muovendo nella sua scia, sul fatto che si sia arrivati a definire senza vergogna il cosiddetto Colosseo Quadrato,, quello che reca l’iscrizione “l’Italia paese di artisti di Santi di pensatori di Scienziati di navigatori di eroi” come un capolavoro d’arte, giustamente degno di conservazione, senza far menzione del fatto che tale frase è stata pronunciata nell’annuncio al popolo italiano, da parte di Mussolini, dell’invasione dell’Etiopia.

Tale fatto dovrebbe imporre quantomeno cautele nell’affrontare questa parte della memoria italiana del 1900. Si apre la via, a questo punto, anche per riprendere in esame l’indegna toponomastica che opprime il nostro Paese: lascio la materia a chi parlerà dopo di me, ma ricordiamo che sull’Amba Aradan l’Itallia (il regime fascista intendo) fece ampio e documentato uso di gas, crimine di guerra tra i più atroci. Certo, un ripensamento è in atto: pensiamo all’iniziativa presa a Bolzano (il percorso BZ 18-45, allestito proprio sotto il Monumento alla Vittoria, voluto a suo tempo dal regime) e a quella romana ( il Museo italo-africano Ilaria Alpi, all’interno del Museo delle civiltà, progetto splendido ma del cui stato di realizzazione vorrei peraltro sapere di più).
Segnalo ancora un intervento – originariamente uscito su Il manifesto, ma opportunamente riprodotto e tuttora consultabile al sito di Faro-Venezia – dell’archeologa peruviana Daniela Ortiz che, osservato come questi fenomeni siano per lo più in rapporto con il passato colonialista dell’Italia (e dell’Europa), sviluppa un eccellente intervento anticolonialista, sostenendo che dietro l’insensibilità della cultura dominante per questi fenomeni di patrimonio divisivo si nasconda spesso la volontà di mantenere vive le tradizioni colonialiste. Forse è il caso di non fare di ogni erba un fascio, però confesso essere essenzialmente questa l’idea che certe prese di posizioni lasciano in noi; ciè, tra l’altro, aiuta a spiegare il … tentativo di linciaggio ideologico della professoressa Ben Ghiat.
Voglio ancora aggiungere qualcosa sulla vicenda dell’Amba Aradan. Gli italiani hanno fatto due volte uso di gas in Etiopia, la seconda volta dopo la conclusione della guerra e l’annessione, anche se pur sempre prima dello scoppio della seconda guerra mondiale; nel secondo caso, trattandosi delle famiglie di tribù non domate che avevano trovato rifugio negli anfratti dell’Amba – e quindi di gruppi di bambini e donne sterminati come insetti – si tratta di un inaudito quanto ignobile caso di crimine contro l’umanità. Che io sia a conoscenza, solo gli italiani in Africa e i giapponesi in Cina hanno fatto uso di gas nel periodo tra le due guerre mondiali.

Ecco forse sono stato troppo tranchant e non ho concluso il discorso, anche per questioni di tempo. Riprenderò e approfondirò in un contributo più aperto che mi riprometto di svolgere più avanti.
Dico semplicemente che la questione della memoria divisiva si è posta in termini simili negli Stati Uniti in relazione alla schiavitù. Nelle cose che ho letto e nelle interviste degli esponenti afroamericni che ho seguito non ho visto una cieca volontà di distruzione, iconoclasta come qualcuno ha provato a dire, ma la ferma necessità di inserire scritte con spiegazioni adeguate nei posti dove gli antenati furono venduti, uccisi, sterminati. Ricordo in particolare di aver assistito ad una bellissima intervista fatta a una intellettuale afroamericana che parlando di Richmond, capitale della Confederazione degli Stati del Sud dureante la guerra civile. diceva: non vogliamo permettere che le memorie di quel periodo vengano distrutte perché potrebbe fare comodo proprio agli eredi eri degli schiavisti cancellare ogni traccia. Noi vogliamo che i simboli e le vestigia restino, ma per quello che sono e significano: i simboli infami dello schiavismo in occidente. Io sono un giurista; a Richmond, capitale della confederazione, aveva sede la Corte suprema della Confederazione, che tra la sua nascita e la fine della guerra ha fatto tempo a pronunciare sentenze e pareri sulla schiavitù dei neri come “legge di natura” – con qualche difficoltà se ne possono trovare tracce on-line – che sarebbe bene forse far circolare in modo che si sappia cosa veniva detto e come si ragionava. Tutto ciò che ricorda quel periodo, concludeva la donna, va mantenuto.

Allora, concludo scagliando un sasso. Quando ci troviamo in presenza di profili patrimoniali intrinsecamente legati all’orrore del colonialismo o della schiavitù, possiamo limitarci a parlare di patrimonio dissonante, come se fosse la stessa cosa che nel caso dello stile imperiale dell’architettura di rimini?

(anche in questo caso, comunque, non è che l’architettura con la politica non c’entri, come afferma sul web qualche anima bella: l’architettura è forse la più politica delle Scienze). Restano in ogni caso memorie di periodi della vita della nazione, che forse con il tempo possono perdere in parte la valenza più negativa… Forse. Però quando abbiamo a che vedere con la memoria del colonialismo e della schiavitù moderna,.. allora non siamo in presenza di meri simboli con cui poi la gente si possa rappacificare. In questi casi l’unico modo per giustificare la loro non-distruzione è appunto quello di tenerli in vita per quello che sono e per l’orrore che devono testimoniare anche per le prossime generazioni, non certo come espressioni di cultura che il tempo possa privare della carica negativa.
E quindi, per finire: gloria alla professoressa Ben Ghiat che c’ha dato uno spunto per entrare a fondo nella palude della conduzione patrimoniale da parte del nostro Paese.

D I S S O N A N Z E

Un incontro sul patrimonio dissonante.

Per patrimonio dissonante, o controverso, si intende un oggetto patrimoniale che può dare origine a interpretazioni conflittuali – o comunque in contrasto tra loro – da parte di gruppi socio-culturali diversi o dallo stesso gruppo che cambia idea nel corso del tempo.

Come esempi di patrimonio dissonante, si fa riferimento all’architettura (come la sede stessa di questo incontro) a monumenti, dipinti, oggetti etnoantropologici, ma anche il patrimonio culturale intangibile o personaggi storici come Cadorna, Cialdini (eroi o criminali di guerra? Cristoforo Colombo (scopritore o colonialista?)

  • La dissonanza può essere sincronica, diacronica o di potere:
  • É sincronica quando si manifesta nello stesso momento tra gruppi diversi.
  • É diacronica quando lo stesso gruppo cambia idea nei confronti di uno stesso oggetto patrimoniale.
  • É di potere quando si ha discordanza su chi ha il diritto di includere o escludere qualcosa da una lista di oggetti patrimoniali, oppure – in senso più radicale – quando il contrasto riguarda il diritto di decidere se una cosa è «patrimonio» oppure no.

Per chi si collega in remoto il link su Googel Meet è questo:
https://meet.google.com/dmj-iojc-zko

Patrimonio dissonante e divisività assoluta

A proposito di un articolo segnalato nel sito di Faro Venezia (Autore Lauso Zagato)

daniela ortiz, patrimonio controverso o dissonante

1. Un importante intervento dell’artista peruviana Daniela Ortiz

La scorsa primavera è stato meritoriamente inserito nel sito di Faro Venezia il richiamo ad un articolo pubblicato dal Manifesto al tempo della sindemia, nei mesi finali del 20211; si tratta dell’intervista all’artista peruviana Daniela Ortiz da parte dalla giornalista Lucrezia Ortolani a proposito del significato del patrimonio dissonante di origine coloniale oggi.

Ciò conferma l’attenzione di Faro Venezia per un problema nodale del patrimonio culturale tutto, (tangibile e non), attenzione del resto desumibile dal fatto che una delle FAQ dedicate dall’Associazione alla Convenzione di Faro, la 12 (II), è dedicata proprio alla nozione di patrimonio dissonante. Invero, la radicalità dei problemi in gioco configge con la pericolosa conferma di una tradizione improntata ad un rigido conservazionismo nei confronti del patrimonio ereditato.

Dice la Ortiz all’inizio della sua intervista, “vogliono mantenere viva la tradizione colonialista, la conservazione del patrimonio è solo una scusa”. Non sono del tutto sicuro dell’esattezza della seconda parte del ragionamento, nel senso che spesso non si tratta di scuse, ma di una adamantina certezza nella sacralità e ad un tempo neutralità delle vestigia patrimoniali2, di qualsiasi origine e natura. L’effetto comunque non è diverso: un patrimonio, materiale e non, e dietro a questo un blocco di memorie legate a determinate epoche e fasi storiche, e ideologie al tempo dominanti, devono a detta del pensiero dominante essere mantenuti come tali in nome della supposta neutralità dell’arte. Ripeto, quando una simile posizione è portata avanti dai cultori della conservazione dura e pura, sempre e dovunque, ne va rispettata la coerenza. Peraltro, abbiamo avuto tutti agio di notare come in vari casi siano proprio quanti si dichiarano a favore di un approccio cosiddetto liberista in materia, per cui tutto risulta sacrificabile alla globalizzazione delle arti e delle culture (e soprattutto dei commerci in tale ambito) a porre un rigido caveat ove vengano messi in discussione quei profili patrimoniali che più drammaticamente simboleggiano l’avventura spaventosa dell’Europa nei secoli della conquista.

2. La lezione della professoressa Ben Ghiat: Davvero l’eredità monumentale del fascismo sarebbe costituita da “merely depoliticized aethyetica objects” (oggetti di valore estetico ormai privi di valenza politica)”?

Di qua la doverosa presa di distanza, a mio giudizio, dalla (troppo) ampia levata di scudi, al limite dell’indignazione, che ha accolto a suo tempo in Italia la pubblicazione dell’articolo della professoressa Ben Ghiat’3. Cosa diceva di così dissacrante la studiosa americana? Non accusava la cultura italiana di essere ancora impregnata di fascismo (e in questo era casomai troppo ottimista, alla luce della cupa realtà attuale del nostro Paese). Il suo punto era che la cultura italiana trattava l’eredità monumentale del fascismo come “merely depoliticized aesthetic objects”, con l’effetto di non comprenderne la valenza politica, che peraltro rimaneva (e rimane) ben chiara ai gruppi di estrema destra4.

Vi è allora da augurarci che l’apertura al tema del sito di Faro Venezia, dando spazio alla chiarezza della presa di posizione da parte dell’artista peruviana, possa contribuisca allo sviluppo di un dibattito non limitato ai professionisti del patrimonio, ma che attraversi le comunità patrimoniali, a partire da quelle più vicine alla nostra esperienza, riconducibili al circuito veneto/lagunare.

3. Faro Venezia e Alleanza Una Venezia: definizioni a confronto

Mi soffermerei piuttosto sulla Risposta alla Faq 12 (II), di Faro Venezia (la Risposta, a seguire). Questa definisce patrimonio dissonante (o controverso) “un oggetto patrimoniale che può dare origine ad interpretazioni patrimoniali conflittuali o comunque in contrasto fra loro, da parte di gruppi socio-culturali diversi o dello stesso gruppo che cambia idea nel corso del tempo, oppure ancora di gruppi che dispongono di livelli di potere diversi”. Nel prosieguo, la Risposta individua le tre varianti della nozione: dissonanza sincronica, diacronica, di potere. Mentre il significato delle prime due è in qualche modo evidente, e comunque ci tornerò oltre, sottolineo l’importanza dell’ultima. Con l’espressione dissonanza di potere ci si riferisce alla presenza o meno di élites dominanti che abbiano il potere di definire cosa è e cosa non è patrimonio culturale. Una variante della dissonanza di potere riguarda la questione dell’inserimento o meno di espressioni culturali nelle varie Liste del patrimonio disciplinate dalle Convenzioni dell’UNESCO. Si aprono qui complesse interrelazioni tra il potere dei diversi Stati interessati (e delle entità sub-statuali) nel loro rapporto sempre difficile, spesso conflittuale, con le comunità viventi da un lato, con gli apparati delle organizzazioni internazionali dall’altro lato.

Non è un caso a mio avviso che proprio una associazione legata anche nel nome alla Convenzione di Faro e allo sviluppo delle comunità patrimoniali abbia saputo porre con chiarezza questa problema. Contro le aperture garantite da tale strumento giuridico /la CF intendo) ha mosso fin dall’inizio, e continua ad agire, un potere castale, onnipotente in alcuni Stati europei (che infatti non hanno ratificato la CF), ma operante anche in Stati che hanno scelto di ratificarla, operando in questo caso con il fine di renderne tendenzialmente nullo ogni possibile effetto concreto5.

Torniamo ora alla definizione di patrimonio dissonante data da Faro Venezia, considerandola nella sua interezza e confrontiamo questa definizione con quella fornita dall’alleanza Una Europa6. Questa si propone di cercare nuove chiavi di lettura (nonché strategie narrative), per la salvaguardia e valorizzazione del patrimonio culturale dissonante inteso come “un patrimonio tangibile e intangibile che per il contesto storico in cui si è formato e i valori che esprimeva in passato è particolarmente difficile da raccontare e gestire”. Gli esempi fatti riguardano poi l’architettura coloniale e quella “voluta dai regimi totalitari”.

Prima di soffermarmi criticamente sul rapporto tra le due definizioni, sottolineo l’esistenza di un punto di confluenza tra loro: entrambe ci aiutano a fare chiarezza nel distinguere il fenomeno in esame dalla situazione del patrimonio conteso. Questa si verifica quando “due o più Stati, entità etnico-linguistiche, religiose, culturali, comunità di vario genere, entrano in conflitto circa l’appartenenza di un bene, di un sito, di singole (o di un complesso di) espressioni culturali, di cui le diverse Parti in causa si considerano legittime depositarie”7 per cause identitarie, di prestigio, economiche. Quest’ultimo è il caso della contesa tra Cambogia e Thailandia per il possesso del centro monumentale di Angkor Vat, contesa che ha conosciuto episodi, all’inizio del secolo, di vera e propria guerra. Nelle sue varianti, il patrimonio conteso rappresenta una situazione simmetrica a quella del patrimonio dissonante.

4. La forza dirompente delle divergenze: una (dura) ipotesi conclusiva

Fatta questa precisazione, a me pare che nel caso della definizione fornita da Una Europa siamo in presenza di una aspirazione, magari virtuosa, a ripulire la radicalità delle divergenze, che non tiene conto della forza dirompente, e operante anche al presente, di svariati fenomeni di dissonanza. La dissonanza in questa prospettiva si riduce così alla sua sola dimensione diacronica, riguarda ricadute al presente di fenomeni passati. Ma quid se la dissonanza è invece sincronica e, soprattutto, se – come nelle situazioni più radicali – è insieme diacronica e sincronica? Il sospetto è che chi ha scelto di muoversi su questo terreno abbia in realtà già deciso cosa sia memoria vivente e cosa non abbia più altro che carattere residuale. Ci si potrebbe persino chiedere, con un po’ di malizia, se qualche volta gli aspiranti “facilitatori” non costituiscano essi stessi un esempio di dissonanza di potere rispetto ai portatori delle specifiche situazioni di dissonanze (sincronica, diacronica, sincronico/diacronica) vivente.

Mi fermo, non senza porre una domanda che chiarisce meglio il mio pensiero: quando ci troviamo in presenza di profili patrimoniali intrinsecamente legati all’orrore del colonialismo (ritornando alla Ortiz), e a quello della schiavitù, non sarebbe lecito parlare piuttosto che di patrimonio dissonante (o controverso), di patrimonio radicalmente divisivo (o contestato)? E quindi: quale dovrà essere il modo corretto di confrontarsi con simili espressioni patrimoniali, una volta scartata la pura e semplice distruzione, che finirebbe paradossalmente per giovare a chi quel passato cerca di cancellare?

Note

1 Lucrezia Ortolani, “Daniela Ortiz, il conflitto mai sopito dietro i monumenti”, ne Il Manifesto, 10 ottobre 2021.

2 In particolare quelle presenti nei territori metropolitani. Per un esempio invece della scarsa considerazione – per usare un eufemismo – di cui godettero, in Italia, le opere d’arte e i referti patrimoniali provenienti dal territorio coloniale, o comunque extra-europeo, v. Marta Nezzo, “L’altra rovina, appunti sul destino degli oggetti non europei durante la seconda guerra mondiale”, in Carmelo Bajamonte, Marta Nezzo (a cura di), Arte e guerra. Storie dal Risorgimento all’età contemporanea, il Poligrafo, Padova, 2021, pp. 207-219.

3 Ryth Ben-Ghiat, “Why so Many Fascist Monuments still Standing in Italy”, in New Yorker, October 5, 2017.

4 L’articolo mi capitò tra le mani solo anni dopo, e mi indusse a scrivere un intervento, poi pubblicato: Lauso Zagato, “Sul patrimonio culturale dissonante e/o divisivo”, in Dialoghi Mediterranei, n. 55, on-line dal 1 maggio 2022, www.istitutoeuroarabo.it/DM/sul-patrimonio-culturale-dissonante-eo-divisivo/. Peraltro alcune delle cose ivi scritte (eravamo nei mesi del “black lives matter”) crearono attorno a quella presa di posizione un imbarazzato silenzio, anche da parte di persone a me vicine come impianto culturale di riferimento …

5 Il discorso non è improntato a paranoia. Un esponente qualificato della nomenclatura culturale del nostro Paese scrisse qualche anno fa, senza mezzi termini, che per fortuna l’Italia non aveva ratificato la CF lo avesse fatto in futuro, che non c’era alcun bisogno che lo facesse, ma che se , che non c’era alcun bisogno che lo facesse, ma che se lo avesse fatto in futuro sotto la pressione di qualche gruppo politico, esistevano e andavano usati gli strumenti per neutralizzarne ogni possibile effetto devastante. In altre parole, in caso di ratifica, bisognava disinnescare l’ordigno.

6 UNIBO Magazine, 10 novembre 2021, Rileggere e riscoprire il patrimonio culturale “dissonante”, https://magazine.unibo.it/archivio/2021/11/10/rileggere-e-riscoprire-il-patrimonio-culturale-201dissonante201d.

7 Zagato L., op. cit.

A sostegno del Forum Futuro Asenale

Ospitamo questo appello del Forum Futuro Arsenale, una della storiche Comnunità Patrimioniali Veneziane, da sempre del tutto inascoltata dalle amminstrazioni cittadine. Un esempio perfetto di come NON dovrebbero essere i rapporti tra Comunità Patrimoniali e istituzioni.

Arsenale di Venezia: il Comune non ascolta i cittadini e tira dritto per la sua strada malgrado progetti e buoni consigli.

Il Consiglio Comunale di Venezia, con la delibera n. 18 del 03.03.2022, ha approvato lo schema di protocollo d’intesa con Ministero della Cultura e Ministero della Difesa per variare l’assetto proprietario dell’Arsenale… senza badare alle critiche nostre, di molte associazioni, di molti cittadini e pure della minoranza consiliare che hanno evidenziato l’incoerenza di quella manovra con le disposizioni di legge e con gli stessi interessi dell’Amministrazione comunale.

Contro la ingiustificata cessione del patrimonio pubblico e l’indifferenza alle richieste di tanti cittadini intendiamo presentare un ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, entro il 14 maggio, per far dichiarare l’illegittimità di quella delibera.

E’ quindi necessario coprire le spese di legali e di giudizio che abbiamo stimato fino a circa 20.000 euro da raccogliere entro il 10 maggio 2022.

Apriamo dunque una campagna di raccolta fondi per sostenere
finanziariamente il ricorso al TAR

Causale versamento: RICORSO al TAR VENETO
IBAN bancario: IT59 A030 6967 6845 1074 9169 678
Beneficiario: Associazione FORUM FUTURO ARSENALE

Associazione Forum Futuro Arsenale
email: segreteria@futuroarsenale.org
Web: www.futuroarsenale.org
Facebook: Futuro Arsenale

Faro Italia Platform

Mappa delle Comunità Patrimoniali in Italia

Faro Italia Platform
faroitaliaplatform.it

Comunità per il patrimonio im/materiale resiliente

Le CP sono l’obiettivo di tante associazioni culturali ed amministrazioni locali che in questi anni hanno prodotto occasioni per condividere e conoscere patrimoni complessi e straordinari, soprattutto attraverso centinaia di Passeggiate Patrimoniali (PP). Questo sito vuole creare una rete collaborativa, farcendo emergere e dialogare CP agli albori, altre già avviate, altre ancora più mature e strutturate in reti complesse.
Da anni il COE di Strasburgo lavora per l’implementazione della Convenzione di Faro (link), con alcune associazioni pioniere, come Faro Venezia (link). Assieme ad altre Comunità Patrimoniali sperimentali si è formato il think tank della Rete Faro Italia, sotto l’egida dell’ufficio in Italia del COE (link). Ora chi vuole può partecipare a questa piattaforma, interattiva e inclusiva, aperta ad ogni CP nazionale, seguendo le istruzioni riportate sotto.

Sito come regesto dinamico delle CP

La ricchezza dei patrimoni che necessitano una gestione culturale condivisa, come dei soggetti che si candidano a proporla, è connaturata nello straordinario policentrismo italiano. Le CP sono uno strumento, tanto complesso quanto efficace, per gestire questo processo. Il sito offre una piattaforma di scambio, conoscenza e partecipazione. Dove sono messi in evidenza gli eventi che ciascuna CP organizza nel breve, per favorire l’interazione spontanea e la cooperazione attiva.
Il sito promuove l’interazione trasversale tra i partecipanti. La Convenzione incoraggia l’azione corale, partecipata a tutti i livelli, che certo è più difficile dell’iniziativa individuale, ma dà maggiori garanzie di concretezza ed efficacia nella valorizzazione del patrimonio. Si tratta di un processo di cross-fertilization, dove le CP veterane ed esperte aiutano le altre, e tutte contribuiscono ad aumentare la consapevolezza collettiva.

Scheda Comunità Patrimoniale

La Convenzione di Faro per il «valore sociale del patrimonio culturale» è uno straordinario strumento per unire comunità e patrimoni. Tante Comunità Patrimoniali (CP) in Italia hanno avviato la loro attività di rete locale, una ricchezza unica in Europa. Le CP testimoniano l’avvio di processi virtuosi di valorizzazione e salvaguardia, condivisa e partecipata, con tutti coloro che hanno responsabilità e passione per il medesimo patrimonio. Il Consiglio d’Europa ha chiesto a Faro Venezia di consolidare la comunità di CP italiane, come prototipo di piattaforma nazionale, in collaborazione con l’ufficio del Consiglio d’Europa in Italia.

Comunità per il patrimonio im/materiale resiliente

Le CP sono l’obiettivo di tante associazioni culturali ed amministrazioni locali che in questi anni hanno prodotto occasioni per condividere e conoscere patrimoni complessi e straordinari, soprattutto attraverso centinaia di Passeggiate Patrimoniali (PP). Questo sito vuole creare una rete collaborativa, farcendo emergere e dialogare CP agli albori, altre già avviate, altre ancora più mature e strutturate in reti complesse.
Da anni il COE di Strasburgo lavora per l’implementazione della Convenzione di Faro (link), con alcune associazioni pioniere, come Faro Venezia (link). Assieme ad altre Comunità Patrimoniali sperimentali si è formato il think tank della Rete Faro Italia, sotto l’egida dell’ufficio in Italia del COE (link). Ora chi vuole può partecipare a questa piattaforma, interattiva e inclusiva, aperta ad ogni CP nazionale, seguendo le istruzioni riportate sotto.

Sito come registro dinamico delle CP

La ricchezza dei patrimoni che necessitano una gestione culturale condivisa, come dei soggetti che si candidano a proporla, è connaturata nello straordinario policentrismo italiano. Le CP sono uno strumento, tanto complesso quanto efficace, per gestire questo processo. Il sito offre una piattaforma di scambio, conoscenza e partecipazione. Dove sono messi in evidenza gli eventi che ciascuna CP organizza nel breve, per favorire l’interazione spontanea e la cooperazione attiva.
Il sito promuove l’interazione trasversale tra i partecipanti. La Convenzione incoraggia l’azione corale, partecipata a tutti i livelli, che certo è più difficile dell’iniziativa individuale, ma dà maggiori garanzie di concretezza ed efficacia nella valorizzazione del patrimonio. Si tratta di un processo di cross-fertilization, dove le CP veterane ed esperte aiutano le altre, e tutte contribuiscono ad aumentare la consapevolezza collettiva.

Scheda Comunità Patrimoniale

Ciascuna CP è un meccanismo unico, ma ha degli ingranaggi comuni a tutte le altre, che occorre evidenziare per aiutare a compiere un processo integrato e partecipato: per essere tutti assieme più efficaci ed inclusivi. Infatti tutte le nuove CP possono richiedere a Faro Venezia l’accesso al form, da compilare on line con tutti i dati che le contraddistinguono, seguendo le istruzioni indicate:

1 – template con la spiegazione delle voci da compilare.

2 – scheda compilata come esempio.

Per informazioni ed iscrizioni scrivere a:
info@faroitaliaplatform.it

Ripartiamo dall’Arsenale

Uno dei temi chiave a della Convenzione di Faro è la la richiesta di partecipazione attiva della cittadinanza alla gestione del patrimonio. Questo non significa fare i volontari che lavorano gratis. Significa partecipare alle decisioni rilevanti con un ruolo politico formalmente riconosciuto.

Come forse alcuni di voi sanno, a Venezia qualunque forma di collaborazione o anche solo di dialogo tra Comunità Patrimoniali e amministrazione è sempre stata difficile ma con il sindaco Brugnaro è diventata impossibile. Le considera “senza potere”, formate da poveri illusi che non capiscono i rapporti di forza e quindi irrilevanti.

Leggi o scarica il MANIFESTO DEL Forum Futuro Arsenale

In questi giorni il Comune deciderà di cedere parti importanti dell’Arsenale alla Biennale, naturalmente senza consultare nessuno e ignorando completamente tutte le proposte di valorizzazione presentate dalle Comunità Patrimoniali, prima fra tutte il Forum Futuro Arsenale. Le aree che saranno cedute sono quelle in verde nella mappa seguente.

La questione dell’Arsenale è complessa e impossibile da riassumere qui, ma almeno due cose vanno notate. La prima è che il sindaco ha abolito l’assessorato alla cultura. Cosa inverosimile in una città come Venezia, ma è così: non abbiamo un assessore alla cultura da sette anni. La seconda è che la Biennale non è una istituzione amata in città. Naturalmente nessuno nega la sua importanza sul piano culturale è come attrattore per un turismo qualificato. Però non ha alcun rapporto con la vita cittadina. E’ un corpo alieno che fa le sue cose rivolte al mondo intero ma ignora la città che la ospita e tende a “mangiarsi” tutti gli spazi disponibili sottraendoli agli abitanti e tenendoli chiusi per sei mesi all’anno.

Detto questo, ora a Venezia sta accadendo una cosa mai successa prima: praticamente TUTTE le organizzazioni della società civile si sono compattate per protestare contro la cessione alla Biennale degli spazi dell’Arsenale di proprietà del Comune. Questa decisione ha assunto subito il significato di una rinuncia, di un lavarsene le mani, di una clamorosa mancanza di idee e incapacità di comprendere il valore di un bene che in qualunque altro paese europeo sarebbe al centro dell’attenzione.

Unica cosa buona di questa brutta storia è che ora abbiamo un elenco completo di tutte le Comunità Patrimoniali cittadine e delle altre organizzazioni di cittadinanza attiva che sono attente al nostro patrimonio culturale. Lo trovate in fondo al Manifesto, scaricabile da inzio pagina. Potrebbe nascerne qualcosa.

Link al sito del Forum Futuro Arsenale

La protezione del patrimonio nelle emergenze umanitarie

Seminario di ricerca a Venezia.
Accessibile da remoto.

Programma completo:


Coordinamento organizzativo:
Simona Pinton (Fondazione Ve.Ri.Pa.) – M. Acri (C.H.Studies – UNG)

Per registrare la partecipazione e ricevere il link:
s.pinton@veripa.org – marco.acri@ung.sl

Lo sguardo dell’artista sul patrimonio controverso

Che le passeggiate patrimoniali (e attvità simili) siano molto popolari è un fatto positivo. Che il 90% dei temi posti dalla Convezione di Faro siano quasi completamente ignorati dalle autorità e anche dalle Comunità Patrimoniali è un altro fatto, ma meno positivo. Uno di questi temi riguarda il patrimonio controverso o”dissonante” (FAQ 1.12 Faro Venezia). Il patrimonio dissonante è una cosa buona da pensare, come direbbe Levi-Strauss. Sorge inevitabile il dubbio che si eviti di discuterne proprio per questo motivo.

Poi però succede che il tema che esca fuori, all’improvviso, in luoghi e forme inaspettate, come i fiumi carsici e le risorgive. La prima di queste emersioni che vi segnalo è il breve video diffuso da poco dal canale arte.tv che introduce bene l’argomento e mette fuoco il ruolo dei musei come custodi del dissonante. Già questo rinnova non poco l’idea corrente di “museo”.

Ma una novità ancora maggiore ci arriva – pochi giorni dopo – dal lavoro di una giovane artista. Per quanto ne so la peruviana Daniela Ortiz è la prima ad affrontare la questione del patrimonio dissonante prendendola di petto e scardinando alla base l’alternativa del diavolo tra “lasciamo tutto com’è e “buttiamo giù tutto”.

Cittadella di Spandau – mostra “Enthüllt – Rivelato”

«Vogliono mantenere viva la narrazione colonialista, la conservazione del patrimonio è solo una scusa». «Volevamo smettere di considerare Roma una città con un passato talmente potente da sovrastarci e immobilizzarci, desideriamo mettere l’eredità in dialogo con l’arte contemporanea (…) perché la nostra riflessione è legata alla permanenza di quei simboli egemoni risalenti all’Impero romano e all’epoca fascista, crediamo che la questione del colonialismo italiano non sia stata affrontata adeguatamente»

“Ho cominciato più di dieci anni fa, quando ho notato la presenza di un indigeno inginocchiato alla base del monumento a Cristoforo Colombo a Barcellona. Mi ha colpito la sua rappresentazione così paternalistica e ho deciso di girare un video durante il 12 ottobre, la festa nazionale spagnola che commemora il giorno della scoperta dell’America – una celebrazione che peraltro non è stata istituita da Franco ma dal partito socialista negli anni ’80″

Il pensiero-azione, tipico delle performance artistiche, ci mostra come i modelli di pensiero che hanno dato origine ai beni controversi sono evolutivi e non statici. Il non-pensiero degli approcci ideologici è molto rigido e non tollera alcuna evoluzione. E’ proprio per superare questa rigidità, che genera violenza, che il patrimonio dissonante ci torna utile. Però si rischiano ritorsioni violente, anche in paese apparentemente democratici.

“Dopodiché ho cominciato a ricevere molte minacce sui social, come avviene a tutte le militanti anticolonialiste e antirazziste. La situazione è diventata più pesante quando ho scoperto che uno di questi gruppi mi stava monitorando ed era a conoscenza di numerosi dettagli della mia vita privata (…) ho capito che era troppo pericoloso restare. Così sono tornata in Perù.”

Le citazioni di Daniela Ortiz sono tratte da:
Daniela Ortiz, il conflitto mai sopito nascosto dietro i monumenti
Intervista. L’artista peruviana a Roma racconta la sua performance
https://ilmanifesto.it/daniela-ortiz-il-conflitto-mai-sopito-nascosto-dietro-i-monumenti/

Intervista video su LOCALES:
https://www.localesproject.org/agire-lo-spazio-pubblico-pratiche-artistiche-decoloniali/

FAQ 2.7 – Cosa significa – in termini pratici – che la applicazione della Convenzione è da realizzare anche mediante la salvaguardia delle figure professionali coinvolte nel settore?

Nel testo della Convenzione di faro (CF) il tema del lavoro culturale e delle figure professionali coinvolte è toccato più volte e in modo chiaro, ma nelle discussioni e negli studi e che hanno accompagnato il lungo processo di ratifica della CF non vi è quasi traccia di questo tema. Questa indifferenza è quasi incredibile visto che CF si sofferma molto spesso, in modo esplicito e ripetuto sul tema delle figure professionali e della loro formazione. Ci sembra opportuno richiamare per esteso questi punti:

Articolo 7 (4) – Patrimonio culturale e dialogo:

Si sottolinea l’importanza del dialogo interculturale, della legittimità delle diverse interpretazioni e attribuzione di valore al patrimonio da parte di comunità culturali diverse, della coesistenza e comprensione reciproca. In questo quadro le parti si impegnano aintegrare questi approcci in tutti gli aspetti dell’educazione e della formazione permanente”.

Articolo 9 (4 e 5) – Uso sostenibile del patrimonio culturale.

Si incoraggia a:

  • promuovere l’uso dei materiali, delle tecniche e delle professionalità derivati dalla tradizione, ed esplorarne il potenziale per applicazioni contemporanee” e a
  • promuovere l’alta qualità degli interventi attraverso i sistemi di qualifica e accreditamento professionali per gli individui, le imprese e le istituzioni

Articolo 13 (1 – 3 – 4)- Patrimonio culturale e conoscenza.

Questo articolo è dedicato quasi interamente alla questione delle professioni. Si incoraggiano in modo deciso e specifico azioni di ricerca e formazione sulle tematiche legate al patrimonio. In particolare:

  • facilitare l’inserimento della dimensione dell’eredità culturale in tutti i livelli di formazione, non necessariamente come argomento di studio specifico, ma come fonte feconda anche per altri ambiti di studio;
  • rafforzare il collegamento fra la formazione nell’ambito dell’eredità culturale e la formazione professionale;
  • Incoraggiare la formazione professionale continua e lo scambio di conoscenze e competenze, sia all’interno che fuori dal sistema educativo.

Data la chiarezza e l’insistenza della CF sul tema delle professioni della cultura questo la “cecità selettiva” che ha colpito gli addetti ai lavori in tutti questi anni richiede almeno un tentativo di spiegazione. Forse è dovuta al fatto che le tematiche del lavoro e del riconoscimento delle qualifiche, delle retribuzioni eque, dei processi di inserimento nelle professioni fanno parte di un campo un campo di saperi e competenze professionali tra i più complessi, mutevoli e specializzati che esitano. Sono saperi però anche del tutto estranei agli specialisti della cultura: storici, architetti, artisti, filosofi, antropologi non se ne occupano in quanto esterni, e quindi estranei, alle loro specializzazioni. La CF tuttavia ha il merito di sollevare problemi che sono per loro natura fortemente trans-disciplinari e invitano al superamento di queste troppo rigide barriere. Infatti l’art. 13(3) ci invita ad “Incoraggiare la ricerca interdisciplinare sull’eredità culturale, sulle comunità di eredità, sull’ambiente e sulle loro interrelazioni.

In termini pratici che cosa significa questo?

Significa che esiste un enorme bisogno e anche urgenza, di interventi legislativi in tema dii lavoro culturale in quanto le logiche dominanti negli ultimi anni del lavoro come merce soggetta contrattazione libera ha penalizzato moltissimo i professionisti della cultura, costretti spesso a prestazioni occasionali a condizioni umilianti o a percorsi di precariato pluridecennali prima di trovare un collocazione professionale adeguata.

Va considerato in ogni caso che:

  • La CF non ha una efficacia immediata e diretta su queste tematiche e il ricorso in giudizio è escluso dall’art.6.
  • In quanto convenzione”quadro” incoraggia gli stati a legiferare in materia in modo da riconoscere e valorizzare le professionalità della cultura e alcuni obblighi di condotta ci sono in seguito alla ratifica. Si veda su questo anche la FAQ 10 sull’efficacia operativa della Convenzione.

Ma quali possono essere allora le priorità sulle quali sollecitare gli enti di governo? Ne suggeriamo alcune.

Volontariato e professionisti

Il rapporto tra volontari e professionisti è fonte di conflitti continui. Istituzioni, musei e lo stesso Ministero Della Cultura utilizzano molto spesso il lavoro gratuito in mondo improprio al posto di personale retribuito. Per contrastare questa pratica è nato anche un sindacato autonomo: Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali.

Modello delle competenze

Da molti anni ormai l’intero sistema della formazione post scolastica in Italia e in tutta l’Europa ha adottato il modello delle Competenze per descrivere in modo analitico i ruoli professionali. Il mondo della cultura è rimasto largamente estraneo a questa impostazione, Una delle conseguenze è che le descrizione dei ruoli professionali in campo culturali è caotica e questo causa a sua volta notevoli difficoltà nella progettazione dei percorsi di formazione e poi del riconoscimento della loro validità sia a livello nazionale che europeo.

l’European Qualifications Framework

Fino a oggi il mondo della cultura si è tenuto largamente ai margini del sistema europeo delle qualifiche comportandosi come sua la esistenza non lo riguardasse, probabilmente risentendo della sua antica radicata tradizione elitaria.
La CF potrebbe però utilmente incentivare l’ingresso a pieno titolo delle professioni della cultura nel Inserimento nel Quadro europeo delle qualifiche (European Qualifications Framework). L’EQF è un quadro di riferimento comune che facilita la comparazione tra qualifiche conseguite in diversi paesi allo scopo di renderle più trasparenti e più facili da capire. In questo modo, l’EQF sostiene la mobilità transfrontaliera di discenti e lavoratori e promuove l’apprendimento permanente e lo sviluppo professionale in tutta Europa. Il silema EQF si basa sui risultati dell’apprendimento (dimostrabili anche se ottenuti fuori dai percorsi istituzionali di formazione)come principio fondamentale e non (non sulla durata dei percorsi di apprendimento). Inoltre valorizza il grado di autonomia e responsabilità delle persone, non solo i contenuti dei loro apprendimenti.

Il riconoscimento delle competenze maturate in modo informale

Da più di venti anni esiste in Europa un sistema di riconoscimento delle competenze maturate in modo informale e non formale (in Francia del 1992). L’Italia si è dotata di un sistema di questo tipo in tempi più recenti e con molte difficoltà . E’ un tema complesso. Per approfondimenti si vede ad esempio: EACEA National Policies Platform > Eurydice o anche il dettagliato Country Report for Italy del CEDEFOP (European Centre for the Development of Vocatinal Training). Anche in questo caso la CF potrebbe utilmente svolgere un ruolo di stimolo affinché le università e le istituzioni culturali si inseriscano in modo attivo e consapevole in questi contesti invece di isolarsi considerandoli minacce.

Superare le male pratiche

Ancora più incisiva potrebbe essere l’applicazione della CF nel contrasto delle diffuse male pratiche retributive. I compensi netti per professionisti qualificati (ad esempio nell’archivistica vicini ai 4 euro/ora con arcaici contratti a cottimo non sono rari. Vanno contrastati gli appalti a massimo ribasso che vengono poi assegnati a cooperative che si rivalgono poi sulla retribuzione degli addetti svolgendo così un ruolo da intermediario inutile e parassitario. Dovrebbero anche essere monitorati e possibilmente sanzionati i concorsi chiaramente “ad personam” (per es. con clausole capestro come 15 anni di esperienza nel ruolo o requisti talmente specifici da poter esser dimostrarti da una sola persona).

In sintesi

Come si vede la materia è impegnativa. La legislazione sul lavoro in Italia è quanto di più complesso e mutevole si possa immaginare e fonti di continui scontri politici. Spetta allora ai sostenitori della CF, a partire dalle Comunità Patrimoniali, esercitare azioni di pressione per stimolare dalle istituzioni il rispetto di una legge dello stato in vigore.

FAQ 2.4 – Quale condotta possono e devono tenere gli enti sub-statali rispetto agli impegni fissati dalla CF?

Gli Enti territoriali sub-statuali prima di tutto hanno la possibilità di fare quanto si diceva qui sopra per Enti pubblici diversi dallo Stato, cioè esprimere la volontà di ispirarsi alla CF. Alcuni consigli comunali sono stati negli scorsi anni all’avanguardia in questo movimento: ricordiamo per tutte l’amministrazione del comune di Fontecchio, in Abruzzo, per il suo ruolo pionieristico. Tali impegni, pur in assenza di vincolatività, hanno avuto una natura promozionale dei contenuti della Convenzione di Faro la cui importanza risalta a posteriori.

Il problema non è dunque cercare nella CF ciò che, anche ed in particolare in rapporto agli enti sub-statali, non vi possiamo trovare. Come indica l’Action Plan del CoE, lo schema corretto prevede piuttosto che: “In line with the Faro Convention principles and criteria, civic initiatives enable institutions and communities to develop decision-making capacities and to manage their development processes, ensuring that heritage contributes to the social, cultural and economic dynamics of the communities”. (In linea con i principi e i criteri della Convenzione di Faro, le iniziative civiche consentono alle istituzioni e alle comunità di sviluppare capacità decisionali e di gestire i propri processi di sviluppo, garantendo che il patrimonio contribuisca alle dinamiche sociali, culturali ed economiche delle comunità)

In altre parole, anche e soprattutto nelle relazioni con gli Enti territoriali, la CF conferisce strumenti utili per le comunità a seguire un percorso di attiva partecipazione.

In mancanza, ad esempio quando manchi l’iniziativa da parte delle Comunità e dei gruppi, la partecipazione è unidirezionale, cioè dall’alto verso il basso, si trasforma in mera capacità delle élites locali di coinvolgere frazioni della società nel proprio percorso.

Quando manchi al contrario la disponibilità istituzionale a questo percorso, lo strumento convenzionale si limita a fornire protezioni di portata limitata a gruppi e comunità. Con una parziale eccezione nel periodo attorno alla metà del decennio, che vide una effettiva partecipazione della Regione Veneto (Comune e provincia mai) ad una serie di iniziative prodromiche dell’entrata in vigore della Convenzione – tra cui il varo della Carta-Venezia nel 2014 – questo è del resto, purtroppo, lo specchio del rapporto a Venezia con le istituzioni territoriali.

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Testo da citare:
Testo redatto a cura dell’ Associazione Faro Venezia
https://farovenezia.org/faro_faq/

FAQ 2.3 – Qual è il ruolo dell’apparato statuale italiano rispetto al CF? Osservazioni sulla Legge di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione della CF del 1° ottobre 2020 (in G.U. SF n. 263 del 23 ottobre 2020)?

La legge italiana del 2 ottobre 2020 n. 133 su “Ratifica e Convenzione della Convenzione-quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società” fatta a Faro il 27 ottobre 2005, (GU Serie generale n. 263 del 27-10-2020) consta di cinque articoli. i primi due recano l’autorizzazione del presidente della repubblica alla ratifica e, rispettivamente, l’ordine di esecuzione, come da prassi. L’art. 5 riguarda l’entrata in vigore della legge (il giorno successivo la pubblicazione in GU); ovviamente, sul piano internazionale, la Convenzione di Faro è entrata in vigore per l’Italia, come già detto, il 1 aprile 2021 (lo strumento di ratifica è stato consegnato nel corso del mese di dicembre).

La disposizione che più interessa è quella di cui all’art. 3. Per l’attuazione delle finalità previste dalla CF nell’art. 1 e dunque per lo svolgimento delle attività destinate ad implementare le disposizioni della Convenzione, è autorizzata la spesa annua di 1 milione l’anno (cifra reperita secondo quanto stabilito dall’art. 4) a decorrere dall’anno 2019. Più precisamente il par. 1 (dell’art. 3) prevede che :

conn decreto del Ministro dell’istruzione, dell’Università e della ricerca, di concerto con i Ministri per i beni e le attività culturali e per il turismo e degli affari esteri e della cooperazione internazionale, sono stabilite le modalità di attuazione della Convenzione, prevedendo, in particolare, l’elaborazione di un programma triennale, entro il limite della spesa annua di cui al periodo precedente, di iniziative dirette al perseguimento delle linee di intervento previste dalla Convenzione, assicurando su base pluriennale, anche mediante l’alternanza tra le diverse misure, il perseguimento di tutti gli ambiti di azione previsti dalla Convenzione.

Il successivo par. 2 – oltre ad un accenno al ruolo delle figure professionali – stabilisce che dall’applicazione della CF “non possono derivare limitazioni rispetto ai livelli di tutela, fruizione e valorizzazione del patrimonio culturale garantiti dalla Costituzione e dalla vigente legislazione in materia”.

Per più aspetti la disposizione è rassicurante: ribadisce che la CF è volta ad arricchire il quadro della tutela del Patrimonio Culturale in Italia, e in nessun modo a diminuirlo. Va detto che sarebbe anche difficile pensare a come una Convenzione siffatta, con i caveat che pone in materia di difesa dei diritti di tutti i soggetti interessati, potrebbe portare limitazione ai “livelli di tutela” del PC garantiti dalla Costituzione italiana. Anche l’impegno all’emanazione (in tempi brevi si suppone) di un decreto inter-ministeriale appare qualificante, nel senso che il legislatore, conscio del fatto che la Convenzione pone sostanzialmente una una serie di obblighi di risultato, esprime l’intenzione di mettersi all’opera per assicurarne il conseguimento.

Meno tranquillizzante è il fatto che il legislatore sembri affatto ignaro del significato e delle ricadute del riconoscimento del diritto al PC, in capo ai singoli come alle comunità, intervenuto con la ratifica, e dunque dell’obbligo di garantire l’inserimento di tale diritto – sottoposto solo ai limiti necessari in un paese democratico etc. – tra quelli previsti dall’ordinamento. A meno che tale diritto, agli occhi del legislatore, non risulti già pienamente desumibile dall’ordinamento stesso.

La parola spetterà inevitabilmente al giudice di merito, nel caso di ricorsi presentati ed aventi detto oggetto. Se il giudice, nelle prime cause che inevitabilmente si porranno, non troverà alcun aggancio nel complesso della normativa sul patrimonio vigente in Italia, che vada nel senso della tutela del diritto indicato, ci troveremmo in presenza di un (serio) inadempimento da parte dello Stato.

Per il resto, la rete delle comunità patrimoniali nel frattempo costituitasi a livello nazionale, attende con interesse la presentazione del primo programma triennale; soprattutto, attende di essere chiamata a discuterlo e a presentare proprie osservazioni..

Con il termine apparato centrale, peraltro non si intendono solo i poteri legislativo-amministrativi dello Stato centrale in contrapposizione a quelli locali, ma anche il ruolo che una serie di Enti pubblici possono giocare.

L’indicazione possibile è che tali enti, nei limiti del possibile, inseriscano già volontariamente il richiamo al rispetto dei principi della Convenzione di Faro – meglio ancora la volontà dell’Ente di ispirarsi senz’altro alla CF – come del resto è in parte già avvenuto e dovrebbe avvenire per alcuni nuovi Musei, nonché per Sovrintendenze, Enti, istituzioni e Fondazioni di ricerca, Biblioteche, istituzioni culturali, Archivi.

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Testo da citare:
Testo redatto a cura dell’ Associazione Faro Venezia
https://farovenezia.org/faro_faq/

FAQ 2.2 – In che modo deve e puo’ essere garantito il riconoscimento del diritto al patrimonio culturale?

Un discorso particolare va fatto piuttosto in relazione al diritto al patrimonio culturale. Se infatti l’art. 5 c) dichiara che le Parti si impegnano (“undertake to”) ad assicurare che nel contesto specifico di ciascuna Parte esistano disposizioni legislative per l’esercizio del diritto al patrimonio culturale come definito nell’art. 4, quest’ultimo fa ricorso al termine “riconoscono” (inglese recognize, francese reconnaissent): ovvero gli Stati parte riconoscono che chiunque, da solo o collettivamente “ha la responsabilità di rispettare il patrimonio culturale di altri tanto quanto il proprio patrimonio e, di conseguenza, il patrimonio comune dell’Europa” (lett b). In inglese: “alone or collectively, has the responsibility to respect the cultural heritage of others as much as their own heritage, and consequently the common heritage of Europe”.

Ancora, l’esercizio del diritto al PC (lett. C) “può essere soggetto soltanto a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico, degli altrui diritti e libertà” (in inglese: (“may be subject only to those restrictions which are necessary in a democratic society for the protection of the public interest and the rights and freedoms of others”). Del resto, già, il considerando 4 del preambolo afferma che gli Stati parte “recognizing that every person has a right to engage with the cultural heritage of their choice” come un aspetto del diritto di partecipare alla vita culturale sancito, oltre che dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dal Patto sui diritti civili e politici del 1966 (art. 15), etc.

Ciò naturalmente nel rispetto degli altrui diritti.
Ove noi riflettiamo che la Convenzione europea dei diritti umani del 1950 utilizza la stessa espressione in francese (reconnaissent) ed in italiano (riconoscono) (in inglese “shall secure”), e che tale espressione prevalse sulla proposta iniziale di scrivere “undertake to secure”, “s’engagent à reconnaitre”, la conseguenza da trarne, seguendo qualificata dottrina, è che tale sostituzione di espressione “è prova della volontà degli Stati parti di assumere, in virtù della stessa partecipazione alla Convenzione (e della sua esecuzione nel proprio ordinamento) l’obbligo immediato di rispettare tutti i diritti ivi contemplati” (Villani 2008).

Lo stesso ragionamento vale per il diritto al PC di cui alla Convenzione di Faro:

gli Stati non operano per riconoscere, non si impegnano a riconoscere, ma riconoscono senz’altro, in virtù della loro partecipazione alla Convenzione, l’esistenza (già data quindi al momento della ratifica, e riconducibile all’art. 15 del Patto sui diritti economici, sociali e culturali) di un diritto al patrimonio culturale.

Ciò non può essere privo di conseguenze: il diritto di riconoscersi in un patrimonio di propria scelta appartiene ai singoli come alle comunità, e lo Stato parte alla Convenzione è chiamato a darne applicazione nel proprio ordinamento.

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Testo redatto a cura dell’ Associazione Faro Venezia
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FAQ 2.1 – Come si applica in Italia la CF?

La CF è una Convenzione-quadro, caratterizzata quindi – lo si è visto – dal porre obblighi di risultato, lasciando agli Stati parte la scelta del come adeguarsi. In effetti l’espressione inglese, sempre utilizzata nella definizione degli obblighi che incombono sugli Stati parte – è “undertake to” o “shall undertake to”, salvo la diversa formulazione contenuta nelle disposizioni normative relative ai meccanismi di monitoraggio (artt. 15-17).

Quindi, nello specifico, vi è l’obbligo per gli Stati di conseguire i risultati posti dalle Sections II (Contribution of cultural heritage to society and human development, artt. 7-10) e III (Shared responsibility for cultural heritage and public participation, artt. 11-13) nei modi che il legislatore ritenga più opportuni.

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Testo da citare:
Testo redatto a cura dell’ Associazione Faro Venezia
https://farovenezia.org/faro_faq/

Faro Social Video – Lessons learned

Questo video riassume le lezioni apprese durante la realizzazione di un video collaborativo realizzato con la partecipazione di 6 Comunità Patrimoniali facenti parte del Faro Social Lab.

Il video realizzato con la collaborazione di 6 Comunità Patrimioniali è questo (con una descrizione dettagliata del progetto:
https://farovenezia.org/2021/02/01/faro-social-video/

La pagina Facebook del Social Lab si trova qui:
https://www.facebook.com/FaroSocialLab

Per partecipare alla attività del faro Social Lab è necessario compilare questa scheda informatva.
https://forms.gle/qwv15PCCBsjkaGXq5

La Convenzione di Faro, stabilisce, tra le molte innovazioni, che.
“L’eredità culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato del l’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi .

Faro Social Video

Ecco il video prodotto dal Faro Social Lab.

Per chi non avesse seguito il progetto ricordo che è nato durante il periodo natalizio e il contemporaneo lockdown. Si trattava di produrre 6 brevi video clips di 20 secondi ciascuno da parte di sei diverse comunità patrimoniali per poi montarli assieme e arrivarre ad un “promo” unico di due minuti, cioè 20×6=120 secondi. Ciascun clip doveva trattare un sola tematica specifica attinente alla Convenzione di Faro in modo da “visualizzare” l’attività del proponente su quel tema. Vietate inoltre le interviste o lezioni: il clips dovevano sfruttare la specifcità del mezzo e cioè le immagini in movimento. Ammesse invece brevi didascalie o scritte sovrapposte.

Le istruzioni dettagliate si trovano qui

Chi ha pratica di produzione e montaggio video sa che che riuscire a fare un promo brevissimo che illustri una idea o racconti una storia è di gran lunga più diffcile che fare un video lungo.

Come è andata? Benissimo.

Le risposte sono state immediate. Alcuni video inviati erano sotazialmente pronti, altri hanno avuto bisogno un un certo lavoro di post produzione, ma neanche tanto. Ci siamo anche divertiti, il che non guasta.

L’idea del video collettivo aveva anche lo scopo di “testare” la capacità di collabortazione tra comunità patrimonilai diverse e la cosa che mi ha stupito di più è stata la faciltà di collaborazione tra perfetti sconosciuti. Non va sempre così negli ambienti di lavoro e meno che mai nel campo della produzione video, ve lo assicuro. Quindi complimenti a tutti!

Nel corso del progetto sono emerse alcune interessanti “lezioni apprese” che però saranno oggetto di un prossimo post dedicato. Tutti crediti per gli autori si trovano nel testo di accompagnamento pubblicato su Vimeo.

Il video può essere liberamente scaricato e riutilizzato, anche in parte, secondo questa licenza



Licenza Creative Commoms CC BY-NC 4.0
testo da citare:
“Faro Social Lab
https://vimeo.com/showcase/7913346
https://www.facebook.com/FaroSocialLab


Su Vimeo esite anche una rccolta di tutti i singoli clips da 20 secondi:
https://vimeo.com/showcase/7913346