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La guerra delle statue

Negli ultimi tempi si è aperta nel mondo occidentale un vera e propria battaglia delle statue. In realtà è un battaglia sui significati che le storie e i monumenti veicolano. Le statue sono state pensate, finanziate, costruite e posizionate allo scopo preciso di “dare stabilità” ad una particolare visione del mondo e della storia di un popolo. Ma queste visioni cambiano nel tempo; la storia si rivela come un insieme si storie in competizione tra loro e la pietra o il bronzo non sono poi così eterni come ingenuamente si pensava.

Nessuno ancora,in Italia, ha osato mettere in discussione le statue di Giuseppe Garibaldi, ma non è più impensabile che questo possa succedere (e succederà).

Ecco allora per voi una breve rassegna di libri apparsi in un breve arco di tempo che raccontano questa battaglia semiotica e sociale sul patrimonio controverso (i testi sono le presentazioni delle rispettive case editrici).

LENIN stata abbattuta

Antonella Salomoni
Lenin a pezzi. Distruggere e trasformare il passato.

Ed Il Mulino (2024)
https://www.mulino.it/isbn/9788815388094

Vladimir Lenin, fondatore dell’Urss, per volontà di Stalin è stato esposto alla venerazione dei cittadini nel mausoleo della Piazza Rossa, e ha vegliato sui popoli del blocco sovietico attraverso migliaia di occhi di pietra o bronzo di altrettanti monumenti. Ma cosa è accaduto dopo il 1989? Il corpo, perduta l’aura della reliquia, è rimasto in mostra a Mosca, davanti al Cremlino, e le statue sono state in gran parte cancellate. Una vicenda esemplare per comprendere la complessità dei fenomeni iconoclastici. La pratica di tirare giù Lenin dal suo piedistallo ha riguardato tutto lo spazio post sovietico e, in Ucraina, ha assunto contorni talmente importanti da essere indicata con il termine Leninopad: il più grande movimento d’iconoclastia del Novecento, esploso prima ancora delle proteste che, più di recente, abbiamo visto in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. A un secolo dalla morte di Lenin, Antonella Salomoni ne racconta ascesa e declino attraverso la storia del suo corpo e delle sue immagini: innalzate, rispettate e poi rimosse, distrutte, vandalizzate, reinterpretate come simbolo di sottrazione al colonialismo russo, e persino ricollocate sui piedistalli dagli occupanti durante la guerra in Ucraina. Un libro sulla memoria imposta e poi sovvertita, che va al cuore delle inquietudini del mondo contemporaneo.

STATUE DONNE NUDE

Ester Lunardon e Ludovica Piazzi (a cura di)
Comunque Nude. La rappresentazione femminile nei monumenti pubblici italiani

Ed. Mimesis (2023)
https://www.miriconosci.it/libro-comunque-nude/

Questo libro scaturisce dall’indagine svolta dall’associazione Mi Riconosci tra il 2021 e il 2022, che ha censito le statue pubbliche italiane dedicate a figure femminili. I risultati della ricerca hanno confermato una presenza di donne nella statuaria molto bassa, che perpetua spesso stereotipi sessisti e con un rilievo al corpo femminile spesso ipersessualizzato tale da far pensare che una donna, per ottenere attenzione, debba essere nuda.
Il libro raccoglie i contributi di diverse ricercatrici, lavoratrici, studentesse, professioniste dei beni culturali con diversi ambiti di formazione. Tutte le autrici sono attiviste dell’associazione Mi Riconosci che si adopera sui temi inerenti la gestione del patrimonio culturale e le condizioni di lavoro nel settore.

STUE AMERICANE ABBATTUTE

Alessandra Lorini
Le statue bugiarde
Immaginari razziali e coloniali nell’America contemporanea

Ed. Carrocci (2023)
https://www.carocci.it/prodotto/le-statue-bugiarde
Estate del 2020, durante le proteste di Black Lives Matter: due giovanissime ballerine afroamericane danzano a Richmond, Virginia, sulla base del grande monumento del generale confederato Robert E. Lee, completamente ricoperta da graffiti di diversi colori; in un parco del Connecticut ignoti, di notte, decapitano una statua di Colombo e un’altra, nel Minnesota, viene abbattuta, in pieno giorno, da attivisti nativi americani con una cerimonia rituale; un importante museo newyorkese decide di rimuovere la statua equestre del presidente Theodore Roosevelt che troneggia da più di ottant’anni davanti all’entrata su Central Park. Che cosa ci dicono questi gesti iconoclasti della società americana odierna? Il volume ricostruisce la storia di alcuni monumenti pubblici altamente controversi nel contesto statunitense, svelando le narrazioni che li sostengono, mai neutrali e decisamente conflittuali. Chi ha voluto quelle statue? Quali storie bugiarde raccontano? Quali sono i gruppi sociali cancellati dalla rappresentazione monumentale? Si può creare una memoria pubblica più inclusiva?

Il Patrimonio dissonante – osservazioni e temi critici

Di: Silvia Chiodi

Intervento nel workshop DISSONANZE, aA cura dell’Associazione Faro Venezia
Tenutosi al Lido di Venezia il 4 dicembre 2023

L’articolo seguente è uno sviluppo di quanto esposto nel video.

Nella slide di apertura, accanto al sottotitolo “Osservazioni e temi critici” al patrimonio dissonante, ho volutamente posto un primo ed importante tema critico connesso alla distruzione di memorie non condivise: la creazione di un indice ideologico. Questo perché, come vedremo, il rischio c’è ed è molto forte e attuale.

Per introdurre il problema volevo soffermarmi sulla definizione di patrimonio dissonante. Il tema però è già stato affrontato da Lauso Zagato e da Giuseppe Maino a cui rinvio.

Ricordo solo che l’oggetto patrimoniale, in quanto oggetto, è di per sé neutro, non lo è in quanto patrimonio culturale. E’ il pensiero, l’idea, che si ha di quell’oggetto, la funzione di cui lo si ammanta etc. che può renderlo controverso per la comunità e/o per le persone o gruppi di persone ad essa estranea.

Faro Venezia ricorda, tra le altre cose, che tutti i vari casi di dissonanza si prestano molto bene ad essere occasioni di apprendimento del pensiero critico ed aperto. Attraverso la dissonanza è infatti possibile un’educazione al patrimonio per mezzo dell’adozione di un approccio critico, di dibattiti, di analisi che, in quanto tali, ci permettono, tra le altre cose, di capire perché un bene culturale viene o è stato percepito come controverso e al contempo di cercare di superare tale controversia.

Tutte le opere d’arte o meglio, tutto il patrimonio culturale – in quanto cultural – è di per sé potenzialmente controverso perché ha in sé la controversia insieme alla possibilità di non essere tale.

Poiché il patrimonio culturale in quanto portatore di valori, di simboli, di pensieri di ideologia, e di tanto altro ancora, non è neutrale le problematiche possono nascere anche da come lo presenti, come ne discuti e come ne parli.

Vorrei fare un esempio utilizzando una controversia che riguarda il discobolo Lancellotti. Reso all’Italia nel 1948, insieme ad altre opere illegalmente portate in Germania, ne è stata recentemente rivendicata la restituzione. La pretesa ha origine da una lettera in cui, da parte italiana, si richiedeva la base di marmo su cui poggiava la scultura. Richiesta a cui la Germania ha risposto richiedendo la restituzione dell’opera in quanto non trafugata ma venduta ad Hitler per volere di Mussolini (seppur vincolata dal 1909).

Ma perché ve ne parlo in questo contesto? In una mostra dal titolo Arte liberata. Capolavori salvati dalla guerra 1937-1947, allestita a Roma presso le Scuderie del Quirinale dal 16 dicembre 2022 al 10 aprile 2023, nella sezione Le esportazioni forzate e il mercato dell’arte troviamo il discobolo in questione.

Se il nostro sguardo si fermasse alla sola osservazione dell’opera d’arte contempleremmo la copia romana del celebre bronzo di Mirone e ne ammireremmo la bellezza e le forma. Ma se il nostro occhio superasse, come l’allestimento chiede, la statua, la stessa acquisirebbe di colpo un valore ed un significato profondamente diverso diventando potenzialmente controverso travalicando la prima potenziale domanda: a chi appartiene questa statua? Ponendone una seconda e più problematica: qual è il rapporto, se ve ne è, della statua con il nazismo e la sua ideologia? La risposta, a seconda del pensiero di chi la pone e risponde, cambia e può potenzialmente attribuire un carattere più o meno dissonante alla statua e provocare reazioni più o meno furiose.

Non mi soffermo su architettura e patrimonio dissonante e se Cadorna e Cialdini siano o meno stati criminali di guerra, ma sulla figura di Cristoforo Colombo e sulla diatriba che oggi lo riguarda: scopritore o colonialista?

Mente stavo preparando la lezione per l’Università, due opere, generalmente considerati miti, ma che tali non sono, scritti in sumerico e datati alla fine del III millennio a.C. (o sarebbe più inclusivo dire a.e.v = avanti l’era volgare) hanno attirato la mia attenzione proprio in merito alle questioni di cui sopra.

Ambedue le opere, intitolate dagli studiosi contemporanei: “Enki e il nuovo ordine del mondo” e “Enmerkar e il signore di Aratta”, non solo menzionano la presenza di colonie sumeriche che tentano, senza riuscirci, una ribellione (Aratta) o vengono “visitate” dal dio Enki durante una sua opera riformatrice “dell’ordine del mondo” e a cui il dio dispensa la sua benedizione o parole minacciose, elogiando le realizzazioni già ottenute. Colonie di cui conosciamo l’esistenza già dal periodo di Uruk (seconda metà del iv millennio a.C. ca) e nei cui testi in questione viene religiosamente giustificata l’esistenza e la funzione.

Documenti che, proprio sulla base di quest’ultima affermazione, dovrebbero essere condannati, distrutti, dimenticati.

Ma se così facessimo o se così fosse avvenuto noi avremmo perso due importanti documenti letterari ed al contempo a loro modo storici e fonti importanti per lo studio del colonialismo nell’antichità e che attestano che l’occupazione di territori oltre i confini nazionali non è caratteristica esclusiva del solo mondo occidentale, ma appartiene a molte culture e civiltà. Secondo alcuni studiosi, ad esempio, “l’espansione delle società di Uruk ha qualche somiglianza con l’espansione coloniale delle società europee nelle aree meno sviluppate del Terzo Mondo. Il fenomeno Uruk può essere caratterizzato come un primo esempio di un “impero informale” o “sistema mondiale” basato sullo scambio asimmetrico e su una divisione internazionale del lavoro organizzata gerarchicamente.”

Come tale, il fenomeno evidenzia l’importanza del dibattito e della discussione, oltre che di uno studio scientifico del tema, ed al contempo la necessità di una potenziale condanna dell’idea – in questo caso del colonialismo – che può svilupparsi in ogni cultura. In caso contrario, distruggendo ciò testimonia ciò che non ci aggrada, relegandolo alla sola cultura occidentale saremmo destinati ad una autodistruzione.

Problematiche simili le troviamo nella letteratura, nella mitologia, nei testi religiosi dove troviamo attestate idee e concezioni che oggi nessuno accetterebbe. Pensiamo, ad esempio al tema dello stupro. Un ratto famosissimo è quello di Europa per mano di Zeus. Violenza ricordata persino in una moneta europea (moneta di due euro greca) di cui però sembra che nessuno ne percepisca il valore negativo. Oltre a questo ricordiamo la pratica della schiavitù, il ruolo subalterno della donna, il problema dell’omosessualità e via dicendo.

L’importante è non distruggere ciò che la nostra sensibilità non accetta più, ma discuterne, discuterne e superare la problematica dandogli anche la giusta valenza storica e culturale. A tal uopo il bene culturale potrebbe essere utilizzato per favorire la formazione di un pensiero critico consapevoli che quel pensiero critico non è definitivo e potrebbe cambiare e svilupparsi nell’arco del tempo (e non solo in positivo).

Purtroppo non riesco a farvi vedere questo breve filmato– rimando perciò al link riportato nella slide – in cui tra le altre cose si menzionano le statue decapitate di Gudea, vissuto nel xxii secolo a.C. e che fu governatore della città di Lagash, con l’intento, secondo l’autore del filmato, di cancellarne la memoria storica.

Ora, al di là di Gudea, il senso della decapitazione, soprattutto delle statue che avevano ricevuto il cosiddetto rituale della apertura della bocca, era quello di “uccidere”, cancellandone la sua funzione. Quindi molto di più della cosidetta damnatio memoriae e della cancel cultur (se non quando applicata sulle tombe). In questi casi la statua non era considerata una semplice immagine o rappresentazione ma una duplicazione /sostituzione della persona di cui essa portava il nome. Essa era posta nel tempio, quando “il proprietario”, generalmente il sovrano, era ancora in vita con l’incarico di ricordare alla divinità cosa aveva fatto colui che rappresentava e chiedendo in cambio la vita; vita terrena e vita post-mortem. Per tale motivo, in teoria, la statua non poteva essere spostata dal luogo assegnatole anche con la morte del proprietario in quanto, attraverso la statua, il defunto continuava in qualche modo a vivere, ad essere presente in terra. Per questo l’iscrizione delle statue terminavano con delle maledizioni verso coloro che cancellavano il nome del proprietario, o la spostavano dal luogo in cui era stata posta e via dicendo. Certo non tutte le statue avevano subito il rito di apertura della bocca.

Dopodiché è chiaro che in una società multiculturale come la nostra si registra un surplus di sensibilità e di questo, per una serena convivenza, dobbiamo tenerne conto.

Il problema dei musei, soprattutto i grandi musei e non solo il British o il Louvre, sono stati per lo più impostati sulla base di una precisa filosofia della storia. L’idea infatti che sottende l’esposizione museale per lo più riflette le filosofie della storia e le ideologie del periodo.

Qual è stato il grande problema? Nasce dal fatto che se si continua ad esempio a esporre le opere d’arte secondo una visione storicistica di impianto Hegeliano o anche evoluzionista, non tenendo conto delle scoperte culturali e scientifiche avvenute nel frattempo che hanno cambiato dei presupposti teorici, significa che non solo si rischia di incorrere in un errore espositivo, ma anche offendere e calpestare la sensibilità di diverse persone e popoli. Se io ad esempio colloco l’arte sumerica vicino all’arte delle popolazioni oggi chiamate illetterate, ma allora “primitiva”, sto ponendo queste ultime, come gran parte anche del mondo africano, fuori da quella che chiamiamo storia, ma nella protostoria e / o preistoria con una precisa e parallela scala di valori culturali (i Sumeri, gli Egiziani e gli Assiri – Babilonesi ad esempio vengono collocati culturalmente prima dei Greci).

Se questo, sulle base delle conoscenze dell’800, poteva essere sostenuto, oggi le popolazioni illetterate vengono considerate contemporanee non più residui di una fantomatica preistoria e all’inizio della scala culturale.

ho fatto solo questo piccolo esempio e sono stata velocissima e forse anche troppo ma volevo proporvi delle provocazioni “riflessive”. Non solo di questi aspetti vorrei porre in evidenza non tanto il lato negativo e di protesta, ma quello positivo di crescita di consapevolezza e di rispetto. In caso contrario vi è il rischio distruttivo e di parallela creazione di un indice.

I più anziani fra noi si ricordano cos’era un indice culturale della chiesa cattolica e cosa ha significato questo per gli artisti, filosofi, musicisti, letterati, ma anche per i potenziali lettori.

Quindi attenzione al moralismo estremo. Usiamo il bene culturale per un dialogo, usiamolo il più possibile per conoscerci meglio, pensando che il mondo non è fatto di Buoni e Cattivi ma di tantissimi troppi grigi. Grazie.

Lauso Zagato: il patrimonio culturale tra dissonanza e divisività

Dal workshop DISSONANZE, a cura dell’Associazione Faro Venezia
Lido di Venezia 4 dicembre 2023

NOTA: il testo che segue è un versione ampliata e corretta rispetto ai sottotitoli presenti nel video. Il parlato infatti presenta imprecisioni che possono rendere di difficile comprensioni alcuni passaggi rilevanti. I sottotitoli possono essere attivati in inglese, francese a altre lingue.

Il disastro sul patrimonio dissonante – che poi non è solo dissonante forse, o controverso, ma più che altro divisivo in senso radicale – ha come punto di partenza l’intervento della professoressa Ben Ghiat del 2017: ci torno verso la fine.

Cosa possiamo dire intanto di generale per entrare nella situazione odierna? Che nel periodo che ha fatto seguito alla caduta del muro di Berlino sempre più spesso l’oggetto privilegiato delle iniziative militari nelle zone di conflitto diventa la distruzione di ogni traccia dell’altrui esistenza e quindi dell’altrui vestigia culturali. Se uno è stato come è capitato a me in Kossovo al tempo della crisi vedrà come i serbi avessero portato via (portato a Belgrado) le vestigia culturali di tipo albanese, e gli albanesi si sarebbero poi vendicati non massacrando i serbi come temevano – perché non avevano capito nulla! – le truppe occidentali che erano lì. C’era una logica profonda: l’elemento albanese del Kosovo si vendicò distruggendo le grandi chiese serbo-ortodosse del 1300 e 1400, grandi capolavori dell’umanità. Lo fece senza presenza di soldati dell’ONU e soldati dell’Alleanza Atlantica, perché non avevano capito niente. Questi pensavano di dover proteggere i bambini le donne eccetera. Non avevano capito su quale schema di distruzione dell’identità altrui si stava evolvendo quel terribile conflitto (Anche se io dico terribile per allora, adesso è stato superato da conflitti ben più terribili di allora. Però come arriviamo alla dissonanza? Perché se io parlo semplicemente di inimicità e di distruzione dell’identità altrui, non c’è dissonanza È ovvio che è quello è il nemico. Il sindaco di Zvornik, città serba bosniaca, disse: “There never were any moskey in Zvornilk!” voleva dire che avevano distrutto tutte le moschee e tutte le tracce della componente islamica della ex Yugoslavia e quindi tutti felici gridavano “Non sono mai esistite moschee a Zvornik”. Questo è un discorso di distruzione pura dell’identità e della memoria del nemico come spesso si sono fatti da vari punti di vista.

Dal punto di vista opposto abbiamo il patrimonio conteso. Qual è il patrimonio conteso? E’ un patrimonio che due gruppi in lotta fra loro entrambi rivendicano. Se vogliamo un esempio chiaro sono le tombe dei Profeti nella zona di Ebron. Israeliani e palestinesi si sono uccisi cica poco in quella zona (qualcuno disse, quando si parlava di pace, che il punto più debole di tutta la Palestina su cui pensare di fare la pace era quella zona). Ma nessuno distrusse nessuna delle tombe perché questi si ammazzavano Perché dicevano che le tombe erano loro (come sapete Mosè è il terzo grande profeta dell’islam, quindi anche l’Islam cerca di tenere a sé tutte queste tradizioni) Questo era un caso di patrimonio conteso. La contesa in altri casi ha una causa banale, per decidere chi controlla certi beni che possono servire a far soldi. Ricordate che Thailandia e Cambogia si sono sparate mica poco dopo la fine dei Khmer rossi ma si sono sparati perché entrambi volevano la zona di confine dove sorgono le grandi rovine di Angkor Vach, Angkor Vat scusate. E’ una situazione simmetrica alla precedente perché il conflitto anche sanguinoso avviene tra comunità e gruppi di di gruppi contendenti che però vogliono risparmiare i beni, perché ciascuno lo considera suo; è il contrario della cosa detta prima, in cui i due gruppi si combattono alla morte e quindi distruggono anche il relativo patrimonio culturale

C’è una brutta considerazione che devo fare, molto triste.
Quand’anche nel corso di un conflitto armato un bene culturale venga risparmiato da entrambi i contendenti, non è detto che ciò sia perché entrambi i contendenti hanno un punto di vista superiore, e quindi dicono: ci facciamo la guerra ma decidiamo qua di lasciare un’area di pace. No, è perché si stanno ammazzando per chi controlla quei beni, e quindi tutti e due stanno molto attenti a non distruggerli. Persino quando le vestigia siano immateriali – nei casi che ho citato finora sono materiali – e siano in qualche modo risparmiate, non è detto che questo corrisponde a una visione superiore da parte dei contendenti: questi pensano semplicemente di ammazzarsi fino all’ultimo, in modo che poi quel patrimonio resti a loro, come ha detto molto bene – quindi evito di ripeterlo – il professor Giuseppe Maino.

Prima – noi ne parliamo con un certo orgoglio perché nelle FAQ che Faro Venezia ha fatto per aiutare la co0mprensione della convenzione di Faro, la FAQ numero 12 è dedicata appunto al patrimonio dissonante – abbiamo individuato tre forme di dissonanza (non che le abbiamo inventate noi naturalmente). Queste tre forme di dissonanza sono la dissonanza sincronica , quella diacronica – e tutti capite cosa vuol dire: la prima è quando i due gruppi umani hanno visioni diverse opposte contemporaneamente su un certo fenomeno, quella diacronica è quando gli sviluppi successivi di una certa civiltà diventano totalmente contraddittori con quella precedente. Poi c’è la dissonanza di potere che si riferisce al potere di definire cosa sia e cosa non sia patrimonio culturale, potere che negli Stati europei tradizionalmente è appannaggio di certe élites. Tralascio di approfondire questa parte del discorso (in altra sede invece mi ci soffermerò a lungo). L’élite francese è sempre stata padrona assoluta di questa materia, e questo a mio avviso è il motivo per cui purtroppo la Francia temo che non ratificherà mai la convenzione di Faro. Però se ci mettiamo a parlare della Convenzione di Faro, non romane il tempo per parlare di altro. (di questa convenzione ricordo che definisce le comunità patrimoniali insiemi insiemi di persone che attribuiscono valore ad aspetti specifici del patrimonio culturale, eccetera).

Dissonanza di potere si riferisce al potere di definire cosa sia e cosa non sia patrimonio culturale, che spesso è appannaggio esclusivo di certe élites che non vogliono “mollare” neanche un osso e avocano a sé sole il potere di dire di dire questa cosa. Faccio presente che nel seguito della risposta alla FAQ 12 noi diciamo una cosa assolutamente congrua con quanto ha detto adesso Giuseppe, e cioè che i casi di dissonanza si prestano molto bene come occasioni di apprendimento del pensiero critico aperto, gosso modo una cosa molto simile a quella che è stata detta. Allora non ci frequentavamo, ma vedete che riusciamo anzi riuscivamo in qualche modo a convergere sulla centralità dell’educazione al patrimonio.

Sono costretto a stringere, e arrivo al punto: qui però è dove il mondo contemporaneo ci offre l’evidenza del permanere e addirittura rafforzarsi di rotture incompatibili reciprocamente, manifestazioni di un odio che si alimenta e che è sviluppato attorno ad un patrimonio radicalmente divisivo in modo vieppiù forte col passaggio del tempo. Ci sono tanti esempi di questa cosa, ne citerò solo due (uno mi sta a cuore perché è l’unico esempio in cui forse emerge la risposta positiva).

Ricordo intanto che non c’entrano niente i Buddha di Bamyian. Se è vero che nel secolo XIII l’Islam era penetrato da secoli nell’Afghanistan occidentale, non era giunto alla pianura dove erano i Budda. La cultura buddista afghana ricca potente e forte, venne sterminata in 2 anni non dagli islamici ma da una spedizione dall’est guidata in persona – credo che sia l’ultima grande spedizione guidata in persona da Genghis Khan. Cosa ci andava a fare là? Forse perché questi avevano dato ospitalità a uno dei suoi nemici storici e lui tutti quelli che avevano ospitato i suoi nemici di gioventù … non solo continuò fino alla vecchiaia a cercare i suoi nemici di gioventù per ucciderli, ma già che c’era a ammazzare in qualunque modo chi li avesse aiutati. Quindi fu una spedizione mongola che eh sterminò la civiltà della Valle portando via schiavi i sopravvissuti ( donne, ragazzi che potevano servire). Nel tempo gli islamici, muovendo verso ocidente, scesero a valle, trovarono queste vestigia e risorse, e ovviamente furono molto contenti perché vi colsero la prova del favore divino: come dire la prova che la vera religione era la loro. Dio li aiutava, anche risparmiando loro di dover fare conflitti, perché si impadronirono praticamente senza ulteriori conflitti dell’intero territorio (donde la riunificazione dell’intera etnia pashtun sotto il credo islamico).

Per molto tempo all’islam afgano, che pure era radicale, non passò minimamente per la testa di distruggere le statue, perché erano una cosa aliena, una cosa che loro avevano trovato, non un simbolo concreto di una credenza avversa alla loro fede.. La cosa divenne invece differente, anche per errori commessi dall’Unesco di cui è inutile che qui parliamo, durante la crisi degli ultimi 10-15 anni del regime dei talebani. Quindi si tratta di dissonanza diacronica interno alla stessa civiltà (gruppo etno-linguistico se vogliamo).

Se avessimo più tempo io mi soffermerei in particolare su alcune vicende intercorse nell’est asiatico tra Giappone e Corea. Il Giappone ne ha fatto di tutti i colori danni dei coreani ma anche dei cinesi : pensate alle Confort Women, ma poi pensate soprattutto al monumento shintoista ai criminali di guerra (alcuni dei quali vennero giustiziati al processo di Tokyo), ma la cosa è andata avanti tranquilla e nessuno ha detto niente, (e perché il Giappone serve nella contesa contro la Cina (prima contro l’Unione Sovietica) per cui il Giappone fa quello che vuole, anche quando mette in serio imbarazzo gli Stati Uniti e crea rabbia nei coreani oltre che nei cinesi. Bene, l’ l’industrializzazione del Giappone tra la fine dell’800 all’inizio del ‘900 era avvenuta tramite praticamente schiavi coreani; quando venne candidata alla Lista del patrimonio intangibile dell’Unesco la prima l’industrializzazione del Giappone (fine 800: il riferimento è al processo, quindi una espressione culturale intangibile ), l’Unesco dice: Ah, molto bene, il primo paese non-europeo che portò avanti l’industrializzazione simile o analoga a quella dell’Occidente senza esserlo! La candidatura merita di essere accolta. La Corea replicò: almeno dite, almeno dite che in quel processo ci sono stati circa 60.000 morti in pochi anni, non robetta, 60.000 morti coreani, morti di stenti dopo essere stati fatti lavorare ad esaurimentio. Orbene, il Giappone non lo fece, e addirittura un ministro giapponese qualche anno fa ha dichiarato che “la Corea ci dovrebbe ringraziare per la nostra colonizzazione degli inizi del 900!”. Ci vuole coraggio misto a mancanza di vergogna: altro che alleati! alleati perché le situazioni politiche internazionali lo impongono, ma voi capite che cosa c’è dietro e di quale radicale divisività siamo in presenza. Mi fermo qui, questa è una cosa drammatica e allo stato priva di soluzioni.

C’è una altro caso di cui devo parlarne un poco (quindi tu, presidente, dammi un calcio se perdo tempo) perché altrimenti non finisco il ragionamento: è il caso di Oradour-sur-Glane (tra l’altro c’è un bellissimo libretto dell’Antonella Tarpino, Geografia della memoria, che poi faccio vedere, mentre parla la nostra Paola io vado a prenderlo, cerco di farlo girare). Allora cosa è successo a Oradour nel corso della guerra? Truppe naziste guidate fisicamente da volontari alsaziani (sapete che quando la Francia venne conquistata, Alsazia e Lorena tornarono a far parte della Germania come fino alla prima guerra mondiale, e ci fu naturalmente la coscrizione. In Lorena., eh, accettarono perché bisognava, invece in Alsazia ci fu una sorta di gara per arruolarsi nell’esercito tedesco, ma in particolare nelle SS che fa degli alsaziani il gruppo non Tedesco – anche se li avevano reinseriti nella Germania – più numeroso a Occidente all’interno delle SS. Certo, i numeri dell’Ucraina sono senza confronto, ma non possiamo parlarne in questa serie perché è troppo complesso, insomma, entrarono in paese e fecero una strage. Il paese non volle mai ricostruirsi, si ricostruirono alcune abitazioni all’esterno, in parte, e si mantenne la memoria dell’orrore che era avvenuto. I superstiti si posero a guardia della memoria che non venisse cancellata. Intanto venne fatto un processo farsa e tempo 5 anni (a parte che il processo già venne fatto nel ’53, una parte dei responsabili venne mandata a casa, furono condannati a morte il comandante dei tedeschi e quello alsaziano, che chiaramente risultava per cartas essere un volontario, e quindi non poteva passare per un povero militare coscritto, anzi era il volontario che li aveva portati lì), vennero liberati tutti. La memoria quindi tendeva a sparire in Francia, o meglio rimaneva nel posto, come fatto locale. Si creò una contrapposizione radicale tra ma memoria ufficiale della Francia e quella degli abitanti di Oradour, un contrasto assoluto: si tratta di una divisività che io giudico nata come divisività diacronica, ma che poi si è sincronizzata per così dire, quindi è diventata sincronica e diacronica in modo terribile ad uno stesso tempo.

C’è qualcosa invece di diverso nel seguito della vicenda, c’è qualcosa di diverso perché con il passare del tempo si verificò un fatto nuovo. Pensate che i giovani erano molto arrabbiati del fatto che tutto fosse memoria del passato, ci fu anche un’elezione politica negli anni 90 in cui ebbe un forte successo in Paese del Fronte Nazionale, cosa che pare assurda: erano i giovani che volevano liberarsi della prigione di una memoria immobile. Il punto è che quella memoria, i vecchi l’avevano organizzata e mantenuta viva molto bene: avevano tenuto i negozi e le attività artigianali. Molti di questi esercizi commerciali ed artigianali in Francia non ci sono più, e l’unico luogo dove sono ancora ben documentati è Oradour.

Si tratta di uno dei rari casi che io conosca in cui un confronto radicale, intriso di odio, di divisività assoluta si è trasformato col tempo in una forma di dissonanza diacronica che ha via via perso i più duri connotati di sincronia; adesso, senza cancellare la memoria della tragedia passata, gli studiosi, i giovani, il turismo colto se vogliamo, vanno a studiare le rovine di Oradour, ormai uniche nel loro genere, in quanto memorie della vita nella Francia contadina durante la prima metà del secolo scorso.

Se non è chiaro, ripeto che ad Oradour è stato proibito per decenni di ricostruire in paese, gli abitanti dal paese si erano fatte piccole costruzioni al margine esterno, e vigilavano che nulla intervenisse a cambiare la reaaltà fisica del paese distrutto. Grazie a ciò, Oradour si è trasformato nel tempo nell’unica (o una tra le rare) fotografie della Francia degli anni ’30-’40, che mantiene vive tradizioni di vita quotidiana altrove ormai dimenticate. Potrebbe essere una indicazione in qualche modo positiva.


Dopo questa panoramica, torno al quesito iniziale: cosa avrebbe detto di scandaloso la professoressa Ben Ghiat nel 2017 da far nascere il pandemonio che è derivato? Ha detto semplicemente che, a differenza di quanto avvenuto in Germania o negli Stati Uniti, in Italia Invece la memoria del passato non viene minimamente cancellata. Io avrei qualche dubbio sulla veridicità della sua affermazione per quanto riguarda Stati Uniti e Germania, ma convengo in pieno a proposito dell’Italia.
Lei fa riferimento al fatto che in Germania è proibita la presentazione dei simboli nazisti E poi ovviamente fa riferimento, per quanto attiene agli Stati Uniti, alla volontà di rispondere alla brutalità della polizia liberandosi dei segni più orribili dell’esperienza della Confederazione. Fino a questo punto però sarebbe una denuncia politica: i cupi simboli del fascismo sarebbero presenti in Italia più che in altri Paesi europei, e si tratterebbe di discutere sul perché del perrmanere di tale spregevole lascito di memorie. Lei dice però un’altra cosa, che è quanto – scusate il termine ma permettetelo -fa incazzare “come ladri” (quasi) tutti gli specialisti della cultura del patrimonio italiano Lei dice che, certo, tenendo in piedi tale eredità, l’Italia fa’ piacere ai fascisti italiani, che ne godono. Solo che non è questo il punto centrale del ragionamento della Ben Ghiat: sviluppando una originale linea di pensiero la studiosa punta in una direzione inaspettata, ed è questo che ha causato la generale levata di scudi. Lei punta ad un altro target: fa intanto una panoramica che, scusatemi, è proprio terribile. Si comincia con il famoso primo ministro Renzi – personaggio che ha dato, come noto, grandi contributi allo sviluppo civile e culturale dell’Italia – il quale candida ufficialmente l’Italia all’organizzazione delle olimpiadi del 2024 (che poi invece sono andate a ad altri, alla Francia) collocandosi di fianco al dipinto “Apoteosi del Fascismo” all’Eur, dipinto che era stato coperto dagli alleati, ma poi scoperto in quanto capolavoro della pittura italiana, (ma perché mai?) dall’allora sindaco di Roma Veltroni. Già questo non sarebbe un episodio proprio bello, ma poi viene richiamato il memoriale in Liguria in onore del generale Graziani: stiamo parlando del – non ho problemi a dichiararlo, mi auguro che nessuno dei presenti si arrabbi – del maggior criminale di guerra italiano, che se l’è cavata perché l’Italia serviva agli Alleati subito dopo il conflitto, ma avrebbe dovuto stare a Norimberga (basti ricordare i crimini commessi anche prima della militanza nella Repubblica di Salò, a partire dalle stragi in Libia). Ci fu, per fortuna, una grande risposta di indignazione, e quindi le autorità regionali della Liguria sospesero i finanziamenti. Tutto bene quindi, ma l’assurdo è che si trattava di amministrazione regionale del centrosinistra. Io non voglio mettere il discorso in politica Ma come diavolo potevano quegli amministratori ritenere che questi crimini orrendi fossero tutti “cose superate”? Vado oltre: non è che ci fossero tra loro agenti infiltrati per conto del neo-fascismo, magari fosse una cosa tanto semplice! Gli sciagurati pensavano davvero che si trattasse di lasciti ingombranti della memoria del passato, e che fosse una cosa saggia e intelligente metterci, alla lettera, una pietra sopra. Questa è esattamente la conclusione cui arriva la professoressa americana: i monumenti del Fascismo sono trattati in Italia come oggetti estetici del tutto depoliticizzati , quindi essendo passato molto tempo si sarebbe persa traccia del loro carattere divisivo? Ma è davvero così?

Non vado avanti nella puntigliosa ricostruzione di quanto analizzato dalla Ben Ghiat, anche perché se ne occuperà un intervento successivo, poi magari riprenderemo il tema nella discussione Mi soffermo solo, muovendo nella sua scia, sul fatto che si sia arrivati a definire senza vergogna il cosiddetto Colosseo Quadrato,, quello che reca l’iscrizione “l’Italia paese di artisti di Santi di pensatori di Scienziati di navigatori di eroi” come un capolavoro d’arte, giustamente degno di conservazione, senza far menzione del fatto che tale frase è stata pronunciata nell’annuncio al popolo italiano, da parte di Mussolini, dell’invasione dell’Etiopia.

Tale fatto dovrebbe imporre quantomeno cautele nell’affrontare questa parte della memoria italiana del 1900. Si apre la via, a questo punto, anche per riprendere in esame l’indegna toponomastica che opprime il nostro Paese: lascio la materia a chi parlerà dopo di me, ma ricordiamo che sull’Amba Aradan l’Itallia (il regime fascista intendo) fece ampio e documentato uso di gas, crimine di guerra tra i più atroci. Certo, un ripensamento è in atto: pensiamo all’iniziativa presa a Bolzano (il percorso BZ 18-45, allestito proprio sotto il Monumento alla Vittoria, voluto a suo tempo dal regime) e a quella romana ( il Museo italo-africano Ilaria Alpi, all’interno del Museo delle civiltà, progetto splendido ma del cui stato di realizzazione vorrei peraltro sapere di più).
Segnalo ancora un intervento – originariamente uscito su Il manifesto, ma opportunamente riprodotto e tuttora consultabile al sito di Faro-Venezia – dell’archeologa peruviana Daniela Ortiz che, osservato come questi fenomeni siano per lo più in rapporto con il passato colonialista dell’Italia (e dell’Europa), sviluppa un eccellente intervento anticolonialista, sostenendo che dietro l’insensibilità della cultura dominante per questi fenomeni di patrimonio divisivo si nasconda spesso la volontà di mantenere vive le tradizioni colonialiste. Forse è il caso di non fare di ogni erba un fascio, però confesso essere essenzialmente questa l’idea che certe prese di posizioni lasciano in noi; ciè, tra l’altro, aiuta a spiegare il … tentativo di linciaggio ideologico della professoressa Ben Ghiat.
Voglio ancora aggiungere qualcosa sulla vicenda dell’Amba Aradan. Gli italiani hanno fatto due volte uso di gas in Etiopia, la seconda volta dopo la conclusione della guerra e l’annessione, anche se pur sempre prima dello scoppio della seconda guerra mondiale; nel secondo caso, trattandosi delle famiglie di tribù non domate che avevano trovato rifugio negli anfratti dell’Amba – e quindi di gruppi di bambini e donne sterminati come insetti – si tratta di un inaudito quanto ignobile caso di crimine contro l’umanità. Che io sia a conoscenza, solo gli italiani in Africa e i giapponesi in Cina hanno fatto uso di gas nel periodo tra le due guerre mondiali.

Ecco forse sono stato troppo tranchant e non ho concluso il discorso, anche per questioni di tempo. Riprenderò e approfondirò in un contributo più aperto che mi riprometto di svolgere più avanti.
Dico semplicemente che la questione della memoria divisiva si è posta in termini simili negli Stati Uniti in relazione alla schiavitù. Nelle cose che ho letto e nelle interviste degli esponenti afroamericni che ho seguito non ho visto una cieca volontà di distruzione, iconoclasta come qualcuno ha provato a dire, ma la ferma necessità di inserire scritte con spiegazioni adeguate nei posti dove gli antenati furono venduti, uccisi, sterminati. Ricordo in particolare di aver assistito ad una bellissima intervista fatta a una intellettuale afroamericana che parlando di Richmond, capitale della Confederazione degli Stati del Sud dureante la guerra civile. diceva: non vogliamo permettere che le memorie di quel periodo vengano distrutte perché potrebbe fare comodo proprio agli eredi eri degli schiavisti cancellare ogni traccia. Noi vogliamo che i simboli e le vestigia restino, ma per quello che sono e significano: i simboli infami dello schiavismo in occidente. Io sono un giurista; a Richmond, capitale della confederazione, aveva sede la Corte suprema della Confederazione, che tra la sua nascita e la fine della guerra ha fatto tempo a pronunciare sentenze e pareri sulla schiavitù dei neri come “legge di natura” – con qualche difficoltà se ne possono trovare tracce on-line – che sarebbe bene forse far circolare in modo che si sappia cosa veniva detto e come si ragionava. Tutto ciò che ricorda quel periodo, concludeva la donna, va mantenuto.

Allora, concludo scagliando un sasso. Quando ci troviamo in presenza di profili patrimoniali intrinsecamente legati all’orrore del colonialismo o della schiavitù, possiamo limitarci a parlare di patrimonio dissonante, come se fosse la stessa cosa che nel caso dello stile imperiale dell’architettura di rimini?

(anche in questo caso, comunque, non è che l’architettura con la politica non c’entri, come afferma sul web qualche anima bella: l’architettura è forse la più politica delle Scienze). Restano in ogni caso memorie di periodi della vita della nazione, che forse con il tempo possono perdere in parte la valenza più negativa… Forse. Però quando abbiamo a che vedere con la memoria del colonialismo e della schiavitù moderna,.. allora non siamo in presenza di meri simboli con cui poi la gente si possa rappacificare. In questi casi l’unico modo per giustificare la loro non-distruzione è appunto quello di tenerli in vita per quello che sono e per l’orrore che devono testimoniare anche per le prossime generazioni, non certo come espressioni di cultura che il tempo possa privare della carica negativa.
E quindi, per finire: gloria alla professoressa Ben Ghiat che c’ha dato uno spunto per entrare a fondo nella palude della conduzione patrimoniale da parte del nostro Paese.