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CASABIANCA

Negli ultimi anni il pensiero economico ha colonizzato tutti gli ambiti della vita sociale divenendo pensiero “unico”, cioè egemone in senso gramsciano. Questo significa che qualunque tipo di iniziativa o esperienza umana, per essere considerata rilevante, deve dimostrare di produrre utili monetari. La “valorizzazione” dei beni culturali non fa eccezione, si tratta di venderli o trasformarli in alberghi o in attrattori per il turismo di massa.

Ad esempio secondo Riccardo Carpino, attuale direttore dell’Agenzia del Demanio, il suo compito è semplice e chiaro: si tratta di trasformare il Demanio una sorta mega agenzia d’affari.

“Io dico che ora il Demanio deve mettersi a vendere. (…)
Mettendo cose nuove e nuove modalità di vendita, andremo avanti.
La sfida è trasformare l’Agenzia del Demanio da fornitore di provvista a operatore che si mette in gioco anche nella vendita”. (da: Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2019, Pronto il piano del Demanio: 1.500 beni in vendita )

Ma vi sono sempre sacche di resistenza umana che operano quasi come il gruppo clandestino di memorizzatori di libri in Fahrenheit 451.

Casabianca mette in evidenza una di queste forme di pensiero non-unico, cioè il pensiero estetico.

Nulla di romantico o contemplativo. Il pensiero estetico è una forma specializzata di conoscenza, come la matematica, la storia, la biologia. Ha un suo campo specifico e modalità di funzionamento individuabili e sopratutto insegnabili. Il suo valore consiste nell’essere una scuola di libertà. Favorisce i processi di soggettivazione che portano alla formazione di persone adulte libere.

Anna Martinatti e Reda Berrada ci raccontano con semplicità e chiarezza la genesi delle loro installazioni site-specific all’interno di una fortezza abbandonata al Lido di Venezia, la Batteria Casabianca (o Ca’ Bianca) Angelo Emo. Si tratta di un luogo ricco di fascino capace di suscitare curiosità, pensieri ed emozioni in tutti quelli che lo scoprono.

Due persone diverse hanno avuto reazioni, emozioni e idee diverse e da queste hanno costruito oggetti e situazioni capaci di comunicarle ad altri. In questo senso la conoscenza estetica può essere considerata un linguaggio, ma un linguaggio che non si basa su un vocabolario di significati definiti, ma costruisce invece significanti aperti che “chiamano” le persone al attivarsi per costruirne il senso.

Si vede qui la differenza del funzionamento del pensiero estetico rispetto a quello storico. La storia tende a passivizzare le persone perché il lavoro di ricostruzione della storia di un luogo è un compito da specialisti. Il risultato di questo lavoro può essere molto interessante e informativo, ma non attiva le capacità creative autonome delle persone.

Una caserma come cosa buona da pensare

PEPE 8

Pubblico qualche foto della caserma Pepe, al Lido di Venezia, inattiva da alcuni anni.
Lo stato di vergognoso abbandono in cui si trova la caserma Pepe è ben documentato dalle foto scattate pochi giorni fa e qui non intendo discutere difficili piani di recupero o lamentarmi dell’indifferenza delle istituzioni. Questa visita è stata piuttosto una buona occasione per chiarire che cosa si intende per “patrimonio” e “valorizzazione” riprendendo alcune idee di base che animano la Convenzione di Faro.

Tutte le foto su FLICKR in grande formato
L’architettura della caserma è, con ogni evidenza, quella di una istituzione totale come un carcere, un manicomio, molti collegi e luoghi simili. Un mondo chiuso in cui la vita delle persone regolata da norme interne dalle quali non si può sgarrare.

A chi sa che cos’è viene subito in mente il Panopticon. Questa era è una struttura carceraria “ideale” progettata nel 1791 dal filosofo, giurista e industriale Jeremy Bentham. Lo scopo era di rendere completamente controllabili a vista i detenuti attraverso una postazione centrale. Le celle dovevano essere disposte in cerchio attorno a questa postazione permettendo ai guardiani (coloro che guardano) di osservare senza impedimenti i detenuti in ogni momento della loro giornata.

Ma questa caserma è diversa da un Panopticon. Al centro si trova un bellissimo pozzo e non una postazione di controllo. Qui si respira aria di controllo diffuso, di una assoluta mancanza di vita privata e individuale. Tutti vedono e controllano tutti. In un carcere ci si va per forza, ci si è rinchiusi con la forza. In corpo militare di élite invece chi si va volontariamente e ci si sta con orgoglio. Non si è imprigionati, si appartiene e si appartiene per sempre, anche dopo il ritorno alla vita civile, perché quell’esperienza è intensa e provoca un cambiamento della personalità permanente.

Per sviluppare il senso di appartenenza la normale organizzazione gerarchica degli eserciti e le regole disciplinari esplicite non bastano. Bisogna intervenire sull’intera personalità delle reclute modificandola profondamente. Le comunità forti infatti si basano su una parziale rinuncia delle personalità individuali a favore di una personalità collettiva. Quanto più una comunità è “forte” tanto più radicale deve essere questa rinuncia alla propria personalità individuale. É per questo che quando si entra in un convento – tipica comunità forte – al novizio viene chiesto per prima cosa di rinunciare ai propri abiti civili e anche al suo stesso nome.

Poi serve un periodo di addestramento. Non uso la parola “educazione” che in una società democratica significa tutt’altro e sostanzialmente il contrario. Basta camminare pochi minuti per i corridoi vuoti della caserma per capire di essere immersi in un formidabile dispositivo simbolico. Le grandi scritte sui muri sono ossessivamente presenti e ribadiscono ad ogni ora del giorno i concetti chiave che formano l’identità collettiva del gruppo.

La vita chiusa rispetto al mondo di fuori ma completamente pubblica rispetto al mondo di dentro. Il dispositivo linguistico fatto di pensieri già pensati e l’intensa e organizzata attività fisica, istituiscono un mondo psichico ed emotivo che plasma le personalità in modo profondo. Si parla infatti di “corpi” militari che spesso sono “speciali” se sono dotati di “spirito di corpo”. Con questo si intende. A differenza degli sport professionali, nei quali lo sviluppo di capacità fisiche speciali è inserito in contesto di competizione individuale, l’identità di questi corpi è anche fisicamente collettiva.

L’unica scritta non istituzionale che ho trovato su muri di una stanza testimonia chiaramente la consapevolezza e l’apprezzamento per questa identità collettiva forte: “Una volta dei nostri, sempre dei nostri”.

Valorizzare, fare cultura

Allora in che senso il patrimonio “fisico” ha un valore culturale? Spesso ci si limita a riepilogarne la storia, l’anno di costruzione, la trasformazioni, gli utilizzi e poco altro. Un vuoto nozionismo tipico della scuola di due secoli fa. Ma spostare l’attenzione dalle cose alle persone significa invece evidenziare i mutamenti dei significati e delle forme di vita sociale che hanno accompagnato una particolare strutturazione del territorio. Solo così le pietre cessano di essere cose buone da usare per diventare cose buone da pensare.

Se un eventuale recupero della caserma abbandonata dovesse cancellare le scritte sui muri con una buona mano di bianco, la possibilità di cogliere i molteplici significato che quel luogo testimonia scomparirebbe.

Farne un luogo di piacevole vita civile, alloggi per studenti, laboratori per artigiani è certo un buon modo per evitarne la rovina e trasformare un luogo di guerra in uno di pace ci attira. Però qualche foto ricordo bene incorniciata non basta a preservarne il valore. L’esperienza fisica del luogo è inestricabile da quella simbolica. É per questo che portare gli studenti ad Auschwitz è profondamente diverso dal raccontarne la storia in una comoda aula scolastica e che incontrate un testimone diretto è diverso da leggerne la storia in un libro. Separare la mente dalle emozioni e le emozioni dal corpo, come ci ha abituati a fare la nostra cultura idealistica – è distruttivo e rende la “cultura” inutile.

Storia della caserma in sintesi
La caserma Guglielmo Pepe fu costruita tra il 1591 al 1595, come sede delle delle Truppe Anfibie, meglio note come “Lagunari” e rimase in attività fino al 18 maggio 1999 quando il Comando del Reggimento e due Compagnie furono trasferite a Mestre.
Il Reggimento Lagunari “Serenissima” è l’unico reparto di fanteria da assalto anfibio dell’Esercito Italiano. Sono gli eredi diretti dei “Fanti da Mar” della Serenissima il cui primo nucleo fu istituito dal Doge Enrico Dandolo nel 1202. dal 2007 fanno parte della unità interforze Forza di proiezione dal mare con la Brigata marina “San Marco” comunemente nota come “Marò”.

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